martedì 7 febbraio 2012

Ciò che di rosso ancora possiedo


Abito in una via stretta, una piccola striscia fatta di ciottoli e fili d'erba secca, una di quelle vie così romantiche di giorno, così vive, con le donne che stendono le tovaglie bianche ad asciugare al sole morbido di settembre e gli studenti del primo anno che tengono fra le mani libri nuovi e sacchetti della spesa pieni di tonno in scatola. È uno di quei posti in cui dalle finestre del piano terra si sentono le voci della bottiglieria e si immaginano contatti elettrici di labbra che davanti ai portoni si sfiorano. Abito in questa via stretta e la mattina, quando il profumo di un caffè fatto da qualcun altro mi sveglia, io non posso che sorridere sul mio cuscino profumato di lavanda.
A volte guardo fuori dalla finestra della cucina mentre bevo latte caldo e briciole sciolte. Guardo dalla finestra e quello che vedo è una mano, che veloce chiude una tenda color rosso scuro. Come a voler nascondere ai miei occhi una realtà che fino a quel momento era rimasta incautamente malcelata. E nella mia mente si formano strani pensieri sul perché di questo gesto tanto improvviso quanto apparentemente calcolato. Non sono curiosa. Non voglio sapere di chi siano quelle dita affusolate che afferrano nervosamente la tenda e la tirano davanti al mio sguardo, escludendolo da quella piccola realtà che diventa per me, improvvisamente e mio malgrado, fonte di infinite domande.

Quella forza, quel modo di stringere le dita intorno alla stoffa, quel modo di non rispettarla, di infrangere la delicatezza di un momento sospeso nel nulla.

Quella visione, che ormai si ripeteva da qualche giorno, era diventata automaticamente l'inizio delle mie giornate, come una di quelle immagini che scorrono sullo schermo mute ed insignificanti mentre si è occupati a lavare i piatti. Vivo costantemente alla ricerca di piccole conferme, e quell'impercettibile abitudine mi aiutava a trovare la sicurezza che mi avrebbe permesso di affrontare l'ennesima giornata fatta di inutili documenti destinati al riciclaggio.
Poi un giorno, mentre appoggiata a una cornetta muta aspettavo di sentire una voce sconosciuta, mi resi conto che io, a quella mano dalle ossa sporgenti, a quelle dita vagamente macchiate di nicotina, non smettevo di pensarci nemmeno un secondo. Erano diventate una presenza imprescindibile della mia esistenza fragile e insapore. C'era qualcosa poi, una forza che lenta percorreva quella pelle ruvida, che mi riportava alla mente sensazioni passate. Ma non riuscivo ad associarle a nessun vero ricordo. Inconsciamente ignoravo quell'inquietudine che leggera si insinuava nella mia testa e percorreva la mia schiena.
Fu allora che decisi di andarci di persona, in quell'appartamento, per capire il perché di questa mia nuova, assurda fissazione.
Trascorsi il pomeriggio a pensare al momento in cui l'avrei vista con i miei occhi, quell'impalpabile presenza che ogni mattina accompagnava il mio risveglio. Poi, alle sette, mi incamminai nel buio, entrando in quel vicolo che la sera sapeva di risate e colori. Quella volta, però, la bottiglieria era stranamente chiusa, e nessun odore di festa proveniva dall'appartamento sotto il mio. Era sabato, e nella piccola strada in salita regnava un incontaminato silenzio. Passai davanti alla mia porta, attraversai la strada e guardando in su vidi una luce debole provenire da una fessura fra quelle tende rosse che conoscevo così bene. Non ci fu bisogno di suonare. Spinsi il pesante portone che, socchiuso, lasciava spazio ai passanti che colti di sorpresa da una pioggia improvvisa si sarebbero forse rifugiati fra le pareti rovinate dell'ingresso. Il corrimano era di un gelido ferro scuro e si arrampicava accompagnato da gradini ripidi verso un portone blu, al secondo piano. Era il suo.
La mia mano, senza alcuna sicurezza, sfiorò il legno della porta. Che stavo facendo?
Poi mi decisi, suonai il campanello, feci un passo indietro. Qualche secondo, poi i suoi passi leggeri, verso di me. La porta si spalancò. Vedere il volto che all'improvviso apparve davanti ai miei occhi, per nulla cambiato con gli anni, fu come uno schiaffo.
Entrai. Seguii i suoi passi fino al piccolo soggiorno, i miei stivali sprofondarono in un tappeto soffice, rosso come le tende da cui, con i suoi occhi neri, mi osservava. Ero turbata. Fu improvviso. Una maglietta strappata, bottoni sul pavimento, graffi, tanti, sulla pelle ruvida di freddo. Dolore, intenso, umido. Il respiro troppo veloce. Il pavimento di legno grezzo che strappa i capelli.
Pensavo che non ero io, non potevo essere io. Mi vedevo, nell'appartamento di fronte, a svegliarmi in un letto grande, allungare la mano e toccare un cuscino caldo, sentire una voce che parlava di caffè e pane tostato, in cucina. Mi vedevo seduta a quel tavolo circondato da piastrelle blu e mestoli di legno, a correggere quei temi dal corsivo tremolante che a volte riuscivano a commuovermi. Mi alzavo per mescolare il minestrone, ogni tanto. Guardavo le calamite sul frigo e i post-it con le scadenze di bollette che puntualmente restavano lì per troppi giorni. Erano tutto, quei pochi metri quadrati zeppi di pagine. Tutto.
E lì, dall'altra parte della strada, ero tornata in un posto che avevo voluto rimuovere, anni prima.
Mentre con le dita cieche cercavo la mia maglietta pensavo che me lo sarei dovuta aspettare, da lei. Niente era stato dimenticato, tutto era lì, in sospeso. E io volevo solo andarmene. Scappare da qualcosa che non era più mio. Davo le spalle alla finestra, mentre mi abbottonavo i jeans. Non la guardavo neanche. Non potevo.
“Non sono venuta solo per questo”. La sua voce, rotta da uno strano tremito, fu una lama. E subito lo riconobbi, quel rumore. Un click, nel silenzio di quella casa spoglia.
Aveva comprato una pistola, anni fa. Si era fatta un regalo. Era la sua piccola fissazione. C'è chi infilza farfalle con uno spillo per il puro egoismo di poterle tenere con sé per sempre. Lei, il suo spillo, aveva deciso di usarlo in quel momento. Sparò. Io caddi, senza morire. Il tappeto tornò ad assumere quella tonalità scura di quando, secoli prima, era stato comprato. Immobile, non ebbi il tempo per capire. Il rumore, questa volta, fu più attutito. Cercai di cancellare dalla mia mente quelle due parole, così brevi, che roche uscirono dalle sue labbra da cui il calore già spariva.
Eppure adesso, quando nuda sto in piedi davanti allo specchio a fissare quella cicatrice scura, anche senza chiudere gli occhi, posso ancora sentirle.

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