La strada sterrata è buia, la sabbia è
illuminata a tratti dalla luce delle stelle, così nitide, così
tante, qui in mezzo al niente più totale. Guido piano ascoltando il
mio cd, quello che da giorni gira all'infinito nel lettore, scandendo
il mio tempo nell'abitacolo piccolo e disordinato. È agosto, una sera qualsiasi della mia breve estate in questo posto ventoso e
profumato. Ancora pochi giorni, e tornerò nella mia casa fredda, che
sa di croissant burrosi e caffè. Merenda sul tappeto morbido del
minuscolo soggiorno, le note di Debussy che vengono dallo stereo, noi
che ci raccontiamo quei giorni di lontananza, quando io respiravo il
profumo del mare, e lui si abbottonava la giacca autunnale sulla
strada per il lavoro. Dopo anni, il ritorno a casa mi sembra sempre
qualcosa di magico, quasi un rituale. Mi immergo nel mio passato, non
voglio più uscirne, dopo. Ma so che sono così innamorata di tutto
questo perché è così effimero. Non c'è più niente che mi possa
trattenere qui, anno dopo anno il mio corpo e la mia mente hanno
iniziato ad appartenere a un luogo diverso, al quale forse non si
abitueranno mai, ma dal quale sono stati catturati irreversibilmente.
Mi fermo, spengo il motore. La strada
finisce improvvisamente. Intorno a me cespugli, rocce, silenzio
assoluto. E stelle. Scendo, alzo la zip della felpa, c'è freddo, un
freddo bello, estivo. Respiro l'aria densa intorno a me, mi siedo sul
cofano, guardo in su. Quest'anno le stelle cadenti sono in ritardo,
mi ha detto qualcuno oggi. Se guardi il cielo, stasera, forse puoi
vederne ancora.
E io sto lì, aspetto.
Il silenzio è rotto dal rumore di una
macchina che avanza lentamente sulla stradina sconnessa. Mi chiedo
chi possa aver avuto la mia stessa idea, proprio oggi, proprio
stasera. Mi alzo, un po' contrariata, guardo verso i fari che si
avvicinano, forse con una vaga aria di sfida. La macchina si ferma a
qualche metro da me, il motore si spegne. Io apro lo sportello,
intenzionata ad andar via da quel luogo non più mio. Ma sento una
voce che conosco.
“Aspetta”.
Resto immobile. Eppure ho solo una gran
voglia di scappare. Perché all'improvviso sento il peso di anni, di
notti insonni, di viaggi, di sere fredde, di distanze. Ed è troppo.
Ma resto. Ora, devo restare.
C'è un sentiero strettissimo, quasi
invisibile, che porta fino a una spiaggia piccola, piena di scogli.
C'è un tronco scolpito dal vento, spezzato, alla fine del sentiero,
le nostre scarpe sprofondano nella sabbia, il mare è quasi immobile.
Mi giro, vedo il profilo delle colline, in lontananza. La strada, le
macchine, sono nascoste da qualche parte, lontano. Ci siamo noi, e
basta.
È come se ci fossimo visti ieri. Come
se non fossimo stati lontani per anni, nel più completo silenzio.
Eppure sappiamo tutto. O meglio, abbiamo una vaga idea della
somiglianza delle nostre vite, a chilometri di distanza. Quando mi
parla di lei, della loro casa minuscola che si affaccia sull'oceano,
della musica e delle pagine scritte la notte, io annuisco, come se
sapessi già tutto. E lui fa lo stesso con me. C'è una reciprocità
disarmante in questa conversazione sospesa in un lasso
spazio-temporale isolato ed irripetibile. Non c'è traccia di cose
taciute, in questo momento c'è tutto, è la bellezza assoluta,
questa notte di agosto.
Mi sfiora la mano. “Guarda” Alzo
gli occhi. C'è una luce, minuscola, che precipita.