giovedì 23 febbraio 2012

Taci (e ascolta)


Camminavo da ore ormai. Il sole diventò una striscia di silenzio arancione, fu allora che mi accorsi di essere arrivata all'ingresso di quel piccolo bosco nel quale non avevo mai avuto il coraggio di addentrarmi. Non so perché, ma pensavo che oltrepassando la soglia di quel fitto groviglio di foglie mi sarei persa, per non tornare mai più. Forse perché un pomeriggio, davanti al camino, mio nonno, con quegli occhi azzurri e il sorriso di carta crespa mi raccontò la storia di un fantasma che abitava fra quelle fronde e che si divertiva a chiamare i visitatori di quel posto incantato, senza mai mostrarsi. D'altronde, era un fantasma. Avevo continuato a mangiare pistacchi, riflettendo su quella buffa storia. Poi non ci pensai più.
Camminavo da ore, e avevo voglia di continuare a farlo. Superai la prima fila di alberi. Il silenzio era immenso. Credo fosse la prima volta che mi capitava di sentirlo per davvero. Ma eterno, in sottofondo, il brusio dei miei pensieri mormorava incessante. Cercai di spegnerlo, mentre accarezzavo la corteccia ricoperta di muschio. Volevo stare con quella parte di me stessa che il più delle volte restava nascosta, sotto tutto il resto. Quella parte che nessuno conosce.
Camminavo da ore. In mezzo al verde scuro e alle lame di luce che sempre più invisibili mi sfioravano. Appoggiai la schiena a un tronco umido, mi sembrò di cadere addormentata. Poi la sentii, una voce sottile, che mi chiamava. Pronunciava le erre così lentamente. Sapeva il mio nome, lo sapeva da sempre, forse. Provai a darle un volto. Non ci riuscii. Immaginai due occhi azzurri però, chiarissimi, che leggeri mi sorridevano.

giovedì 16 febbraio 2012

La grande onda


(da un sogno, strano e bellissimo, che ha anche una colonna sonora)

Il piccolo televisore portatile appartenente a un'epoca ormai dimenticata era appoggiato sulla sabbia e gracchiava ininterrottamente. Ogni tanto si riusciva a distinguere una parola, poi solo fruscii. Sullo schermo, puntini bianchi e neri. Tutto era privo di colori laggiù. Non c'era più nessuno. Si godevano quella pace immobile, dopo anni di chiassosa civiltà.
Seduti sulla sabbia umida, a un metro dalla riva, guardavano lo spettacolo davanti ai loro occhi. Il Golden Gate, deserto e imponente, scompariva in mezzo a una nuvola bassa. Grigia, piena di gocce che dovevano ancora cadere. Forte, sotto il rumore del minuscolo televisore, si sentiva. Era impossibile ignorarlo. Il silenzio.
Loro erano gli ultimi. Avevano deciso di sedersi lì, quella domenica, ad ascoltare il loro programma preferito, sgranocchiando patatine rancide e guardandosi negli occhi, ogni tanto. Le loro domeniche insieme erano sempre speciali. Sempre.
Il piccolo cubo senza colori si spense.
“Che succede?”
“Succede che ci siamo. È lei”
Lei gli strinse il braccio, forte. E poi la videro. L'onda. Immensa, assoluta, sovrastava ogni cosa. Il ponte, le strade, la sabbia, il piccolo televisore, i due ragazzini. Tutto, in quel momento, fu travolto dall'onda. Per un istante quasi eterno l'acqua ricoprì tutto, investendo i loro corpi esili, spazzando via le carcasse arrugginite di vecchie macchine e riempiendo le crepe nei muri.
Poi si ritirò, quell'onda infinita. Lentamente. Fiera, silenziosa.

“...”
“Ho freddo”
Il ponte, a parte qualche piccola frattura scomposta, era ancora in piedi. Lei stava immobile e lo fissava con gli occhi spalancati.
“E' tutto normale. Stai tranquilla”

Si erano incontrati lì, anni prima. Lei aveva occhi nerissimi, i capelli viola, talmente corti da sparire sotto il cappuccio della felpa troppo grande. Lui scriveva storie raccapriccianti su un quadernino giallo. E gliele raccontava per farla addormentare, la sera. Sapevano di essere rimasti solo loro. Sapevano che sarebbero dovuti restare insieme molto a lungo.
Lui le baciò la fronte bagnata e la prese per mano. Si alzarono lentamente. Magrissimi, tremanti. Voltarono le spalle al mare, al ponte, alla loro domenica ormai finita. Il tramonto arancione, accecante, dietro di loro.
“Ti ho mai raccontato cos'è successo nella cantina di quella casa laggiù, al numero 23?”

Continua. Forse.

lunedì 13 febbraio 2012

Azione / reazione


Francesco.
Un uomo con un cappello beige calato di sbieco sui capelli tagliati corti, grigi, camminava lentamente in mezzo alla nebbia di un'alba da meno tre gradi e ghiaccio sul corrimano di ferro del sottopassaggio, alla stazione. Aveva un cappotto lungo e la camminata elegante, il passo sicuro di chi sa che le probabilità che accada qualcosa di eccessivamente sorprendente nella propria vita sono ridotte. Sembrava esserne felice. Assaporava gli ultimi capitoli, quelli in cui fai tutto ciò che non hai avuto tempo di fare in una vita intera. Camminava senza valigia verso un treno che sarebbe partito in ritardo. Avanzava lento, sembrava appartenere a una dimensione temporale differente rispetto a tutte quelle persone che non facevano altro che inseguire i loro inevitabili ritardi. E in quegli attimi di tempo distorti, la vide. I capelli chiarissimi, una treccia sottile sulla spalla, occhi che non conoscevano la finzione del trucco. Era lei. Era uguale a lei, la sua aria trasognata, le sopracciglia folte, tutto in lei lo fece tornare a quel pomeriggio, l'ultimo pomeriggio in cui la baciò per l'ultima volta, dopo aver fatto l'amore sorridendo, con gli occhi un po' lucidi. Poi la guerra. Forse era morta. Forse aveva avuto una figlia uguale a lei, che ora camminava verso il binario quattro.

Helen.
Helen era persa nei suoi pensieri, canticchiava fra sé un brano che sapeva di tazze di porcellana e lezioni di piano pomeridiane. Camminava e non faceva caso alla realtà circostante, anche se per un attimo la sua attenzione fu catturata da un uomo con tante rughe e lo sguardo intriso di nostalgia, che la guardava con una tenerezza indicibile. Pensò che guardandolo fisso negli occhi avrebbe potuto vedere qualche episodio della sua vita, sotto forma di vecchi ritratti in seppia di famiglie in posa, fotografie dai bordi consumati, cartoline in cui un corsivo stentato comunica con un'eccessiva formalità che tutto va bene.
Poi tornò a pensare al suo treno che stava per partire, a quel ragazzo che l'aspettava dall'altra parte, quell'italiano di cui si era invaghita in modo insano, e che fra un mese non avrebbe rivisto mai più. Non voleva. C'era Marc, che la aspettava. C'era una casa appena ristrutturata, divani ricoperti di cellophane e intenso odore di vernice, pareti spoglie e librerie che avrebbero accolto letture irrimediabilmente contrastanti. Salì sul treno, si sedette di fronte a un ragazzo con un'infinità di riccioli rossi e una camicia troppo larga che agitava un foglietto quadrato con aria annoiata. Guardò meglio. Era una polaroid, il viso di una bambina sorrideva sdentato sul cartoncino colorato. Fossette sulle guance e un cappellino blu. Adesso era seduta poche file più avanti, a mangiare caramelle e incollare figurine su un album colorato.

Alessandro.
Alessandro, il fotografo dai capelli rossi, non riusciva a lasciarsi sfuggire i visi delle persone che inconsciamente accompagnavano i suoi viaggi. Era affascinato dal pensiero di poter conservare per sempre una traccia di qualcuno che non avrebbe rivisto mai più, come a voler ricordare sempre a sé stesso quanto fosse tutto estremamente effimero, nella sua esistenza fatta solo di tante partenze e ben pochi arrivi. La ragazza che si era appena seduta davanti a lui era di una bellezza disarmante, semplice, irreale. Una bellezza antica, con quei capelli legati in una treccia delicata di fili dorati. Se la immaginò subito, immortalata per sempre in un ritratto dipinto su una tela che avrebbe ornato un soggiorno fatto di divani in pelle profumata e tappezzeria a fiori rosa pallido. Era uno di quei visi che ricordano lo strato di polvere che ricopre tutto quello di cui prima o poi ci si dimentica. Lei si voltò a guardarlo, lui scattò. Prese quel piccolo pezzo di carta, si meravigliò di quanto l'immagine che lentamente prendeva forma fosse simile a come l'aveva immaginata. Si sporse verso di lei per mostrargliela, ma un soffio di vento la portò via. Il treno non si mosse, ma lui non andò a recuperarla. Si limitò a guardare fuori dal finestrino. Quello che vide fu un uomo.

Francesco (pt. 2)
Un uomo che fissava un pezzo di carta, rapito. Le sue mani ruvide toccavano la superficie di quella fotografia quadrata, che era atterrata ai suoi piedi da chissà dove. Lacrime calde gli bagnavano le guance. Gli mancava, gli mancava da impazzire. Non si ricordava più perché fosse uscito di casa quella mattina gelida, si era dimenticato del biglietto che aveva lasciato sul comò e delle motivazioni che l'avevano spinto fino alla stazione. Dimenticò tutto. Mise quella foto nella tasca interna del cappotto, lo richiuse, sentì la carta premere sul lato sinistro del petto. Si aggiustò il cappello, e con le mani in tasca si allontanò.

martedì 7 febbraio 2012

Ciò che di rosso ancora possiedo


Abito in una via stretta, una piccola striscia fatta di ciottoli e fili d'erba secca, una di quelle vie così romantiche di giorno, così vive, con le donne che stendono le tovaglie bianche ad asciugare al sole morbido di settembre e gli studenti del primo anno che tengono fra le mani libri nuovi e sacchetti della spesa pieni di tonno in scatola. È uno di quei posti in cui dalle finestre del piano terra si sentono le voci della bottiglieria e si immaginano contatti elettrici di labbra che davanti ai portoni si sfiorano. Abito in questa via stretta e la mattina, quando il profumo di un caffè fatto da qualcun altro mi sveglia, io non posso che sorridere sul mio cuscino profumato di lavanda.
A volte guardo fuori dalla finestra della cucina mentre bevo latte caldo e briciole sciolte. Guardo dalla finestra e quello che vedo è una mano, che veloce chiude una tenda color rosso scuro. Come a voler nascondere ai miei occhi una realtà che fino a quel momento era rimasta incautamente malcelata. E nella mia mente si formano strani pensieri sul perché di questo gesto tanto improvviso quanto apparentemente calcolato. Non sono curiosa. Non voglio sapere di chi siano quelle dita affusolate che afferrano nervosamente la tenda e la tirano davanti al mio sguardo, escludendolo da quella piccola realtà che diventa per me, improvvisamente e mio malgrado, fonte di infinite domande.

Quella forza, quel modo di stringere le dita intorno alla stoffa, quel modo di non rispettarla, di infrangere la delicatezza di un momento sospeso nel nulla.

Quella visione, che ormai si ripeteva da qualche giorno, era diventata automaticamente l'inizio delle mie giornate, come una di quelle immagini che scorrono sullo schermo mute ed insignificanti mentre si è occupati a lavare i piatti. Vivo costantemente alla ricerca di piccole conferme, e quell'impercettibile abitudine mi aiutava a trovare la sicurezza che mi avrebbe permesso di affrontare l'ennesima giornata fatta di inutili documenti destinati al riciclaggio.
Poi un giorno, mentre appoggiata a una cornetta muta aspettavo di sentire una voce sconosciuta, mi resi conto che io, a quella mano dalle ossa sporgenti, a quelle dita vagamente macchiate di nicotina, non smettevo di pensarci nemmeno un secondo. Erano diventate una presenza imprescindibile della mia esistenza fragile e insapore. C'era qualcosa poi, una forza che lenta percorreva quella pelle ruvida, che mi riportava alla mente sensazioni passate. Ma non riuscivo ad associarle a nessun vero ricordo. Inconsciamente ignoravo quell'inquietudine che leggera si insinuava nella mia testa e percorreva la mia schiena.
Fu allora che decisi di andarci di persona, in quell'appartamento, per capire il perché di questa mia nuova, assurda fissazione.
Trascorsi il pomeriggio a pensare al momento in cui l'avrei vista con i miei occhi, quell'impalpabile presenza che ogni mattina accompagnava il mio risveglio. Poi, alle sette, mi incamminai nel buio, entrando in quel vicolo che la sera sapeva di risate e colori. Quella volta, però, la bottiglieria era stranamente chiusa, e nessun odore di festa proveniva dall'appartamento sotto il mio. Era sabato, e nella piccola strada in salita regnava un incontaminato silenzio. Passai davanti alla mia porta, attraversai la strada e guardando in su vidi una luce debole provenire da una fessura fra quelle tende rosse che conoscevo così bene. Non ci fu bisogno di suonare. Spinsi il pesante portone che, socchiuso, lasciava spazio ai passanti che colti di sorpresa da una pioggia improvvisa si sarebbero forse rifugiati fra le pareti rovinate dell'ingresso. Il corrimano era di un gelido ferro scuro e si arrampicava accompagnato da gradini ripidi verso un portone blu, al secondo piano. Era il suo.
La mia mano, senza alcuna sicurezza, sfiorò il legno della porta. Che stavo facendo?
Poi mi decisi, suonai il campanello, feci un passo indietro. Qualche secondo, poi i suoi passi leggeri, verso di me. La porta si spalancò. Vedere il volto che all'improvviso apparve davanti ai miei occhi, per nulla cambiato con gli anni, fu come uno schiaffo.
Entrai. Seguii i suoi passi fino al piccolo soggiorno, i miei stivali sprofondarono in un tappeto soffice, rosso come le tende da cui, con i suoi occhi neri, mi osservava. Ero turbata. Fu improvviso. Una maglietta strappata, bottoni sul pavimento, graffi, tanti, sulla pelle ruvida di freddo. Dolore, intenso, umido. Il respiro troppo veloce. Il pavimento di legno grezzo che strappa i capelli.
Pensavo che non ero io, non potevo essere io. Mi vedevo, nell'appartamento di fronte, a svegliarmi in un letto grande, allungare la mano e toccare un cuscino caldo, sentire una voce che parlava di caffè e pane tostato, in cucina. Mi vedevo seduta a quel tavolo circondato da piastrelle blu e mestoli di legno, a correggere quei temi dal corsivo tremolante che a volte riuscivano a commuovermi. Mi alzavo per mescolare il minestrone, ogni tanto. Guardavo le calamite sul frigo e i post-it con le scadenze di bollette che puntualmente restavano lì per troppi giorni. Erano tutto, quei pochi metri quadrati zeppi di pagine. Tutto.
E lì, dall'altra parte della strada, ero tornata in un posto che avevo voluto rimuovere, anni prima.
Mentre con le dita cieche cercavo la mia maglietta pensavo che me lo sarei dovuta aspettare, da lei. Niente era stato dimenticato, tutto era lì, in sospeso. E io volevo solo andarmene. Scappare da qualcosa che non era più mio. Davo le spalle alla finestra, mentre mi abbottonavo i jeans. Non la guardavo neanche. Non potevo.
“Non sono venuta solo per questo”. La sua voce, rotta da uno strano tremito, fu una lama. E subito lo riconobbi, quel rumore. Un click, nel silenzio di quella casa spoglia.
Aveva comprato una pistola, anni fa. Si era fatta un regalo. Era la sua piccola fissazione. C'è chi infilza farfalle con uno spillo per il puro egoismo di poterle tenere con sé per sempre. Lei, il suo spillo, aveva deciso di usarlo in quel momento. Sparò. Io caddi, senza morire. Il tappeto tornò ad assumere quella tonalità scura di quando, secoli prima, era stato comprato. Immobile, non ebbi il tempo per capire. Il rumore, questa volta, fu più attutito. Cercai di cancellare dalla mia mente quelle due parole, così brevi, che roche uscirono dalle sue labbra da cui il calore già spariva.
Eppure adesso, quando nuda sto in piedi davanti allo specchio a fissare quella cicatrice scura, anche senza chiudere gli occhi, posso ancora sentirle.

giovedì 2 febbraio 2012

Cancellato


Quel giorno (era settembre, riesco ancora a ricordare il vento fresco che ti sorprende e riscalda dentro, portatore di futuri inverni e di tazze piene di tè bollente), quel giorno mi trovavo a guardare il mare con un biglietto in mano, un biglietto che avevo ritrovato nella tasca di una giacca in pelle color marronconsumato che era rimasta chiusa nell'armadio per un po'. Nelle mie orecchie il suono di un pianoforte che mi rapiva struggente, quasi a volermi incitare a prendere la decisione sbagliata. Mi ero dimenticata di quel pomeriggio di primavera in cui, davanti al computer, avevo esitato fino all'ultimo. E poi avevo ceduto. Avevo comprato quel biglietto, l'avevo stampato mentre sorridevo pensando al mare che avrei attraversato per andare lassù, in quella città dove c'eri tu che non sapevi niente di quel pezzo di carta e di quei sorrisi ingenui in allegato.
Guardavo le onde che leggere si increspavano, bianche su fondo scuro, sembrava di essere davanti a uno di quei quadri che un pomeriggio ho guardato per ore, illuminata dal riflesso polveroso delle vetrate di quel museo dal nome così soffice. Poi, incantata, quelle stesse onde ho provato a dipingerle sul muro della mia camera. Ma forse non te l'ho mai detto.
Assordata dal rumore incessante di un vortice di sale e acqua fissavo quel piccolo rettangolo stropicciato, che adesso non valeva niente. Oppure valeva troppo. Per me, almeno. Per me che ho avuto le guance rigate dal trucco blu e gli occhi come pozze di fango mentre fissavo il nome di quella destinazione che non avrebbe conosciuto arrivo. Perché io non avrei mai sentito sulla schiena la piccola scossa dell'atterraggio su quella pista bagnata da gocce fredde.
Ho portato un libro, qui davanti alle onde, su questi scogli che, così freddi, graffiano i miei piedi scalzi. Ho portato un libro e ho riletto quella pagina consumata e un po' scolorita. Mi sono chiesta cosa ci spinge, a volte, a dare così tanto peso alle combinazioni di luoghi, suoni e parole che innumerevoli volte segnano momenti che in realtà non sono poi così importanti. Eppure sapevo che quei dieci secondi, quelli in cui strappai la pagina macchiata di lacrime azzurro mare e la lasciai andare, guardandola annegare fra le onde mentre ascoltavo quei suoni che a ripetizione si insinuavano nella mia mente, io sapevo che quei dieci secondi
quel momento gelido
non si sarebbe
mai