Abito in una via stretta,
una piccola striscia fatta di ciottoli e fili d'erba secca, una di
quelle vie così romantiche di giorno, così vive, con le donne che
stendono le tovaglie bianche ad asciugare al sole morbido di
settembre e gli studenti del primo anno che tengono fra le mani libri
nuovi e sacchetti della spesa pieni di tonno in scatola. È uno di
quei posti in cui dalle finestre del piano terra si sentono le voci
della bottiglieria e si immaginano contatti elettrici di labbra che
davanti ai portoni si sfiorano. Abito in questa via stretta e la
mattina, quando il profumo di un caffè fatto da qualcun altro mi
sveglia, io non posso che sorridere sul mio cuscino profumato di
lavanda.
A volte guardo fuori
dalla finestra della cucina mentre bevo latte caldo e briciole
sciolte. Guardo dalla finestra e quello che vedo è una mano, che
veloce chiude una tenda color rosso scuro. Come a voler nascondere ai
miei occhi una realtà che fino a quel momento era rimasta
incautamente malcelata. E nella mia mente si formano strani pensieri
sul perché di questo gesto tanto improvviso quanto apparentemente
calcolato. Non sono curiosa. Non voglio sapere di chi siano quelle
dita affusolate che afferrano nervosamente la tenda e la tirano
davanti al mio sguardo, escludendolo da quella piccola realtà che
diventa per me, improvvisamente e mio malgrado, fonte di infinite
domande.
Quella forza, quel
modo di stringere le dita intorno alla stoffa, quel modo di non
rispettarla, di infrangere la delicatezza di un momento sospeso nel
nulla.
Quella
visione, che ormai si ripeteva da qualche giorno, era diventata
automaticamente l'inizio delle mie giornate, come una di quelle
immagini che scorrono sullo schermo mute ed insignificanti mentre si
è occupati a lavare i piatti. Vivo costantemente alla ricerca di
piccole conferme, e quell'impercettibile abitudine mi aiutava a
trovare la sicurezza che mi avrebbe permesso di affrontare l'ennesima
giornata fatta di inutili documenti destinati al riciclaggio.
Poi
un giorno, mentre appoggiata a una cornetta muta aspettavo di sentire
una voce sconosciuta, mi resi conto che io, a quella mano dalle ossa
sporgenti, a quelle dita vagamente macchiate di nicotina, non
smettevo di pensarci nemmeno un secondo. Erano diventate una presenza
imprescindibile della mia esistenza fragile e insapore. C'era
qualcosa poi, una forza che lenta percorreva quella pelle ruvida, che
mi riportava alla mente sensazioni passate. Ma non riuscivo ad
associarle a nessun vero ricordo. Inconsciamente ignoravo
quell'inquietudine che leggera si insinuava nella mia testa e
percorreva la mia schiena.
Fu
allora che decisi di andarci di persona, in quell'appartamento, per
capire il perché di questa mia nuova, assurda fissazione.
Trascorsi
il pomeriggio a pensare al momento in cui l'avrei vista con i miei
occhi, quell'impalpabile presenza che ogni mattina accompagnava il
mio risveglio. Poi, alle sette, mi incamminai nel buio, entrando in
quel vicolo che la sera sapeva di risate e colori. Quella volta,
però, la bottiglieria era stranamente chiusa, e nessun odore di
festa proveniva dall'appartamento sotto il mio. Era sabato, e nella
piccola strada in salita regnava un incontaminato silenzio. Passai
davanti alla mia porta, attraversai la strada e guardando in su vidi
una luce debole provenire da una fessura fra quelle tende rosse che
conoscevo così bene. Non ci fu bisogno di suonare. Spinsi il pesante
portone che, socchiuso, lasciava spazio ai passanti che colti di
sorpresa da una pioggia improvvisa si sarebbero forse rifugiati fra
le pareti rovinate dell'ingresso. Il corrimano era di un gelido ferro
scuro e si arrampicava accompagnato da gradini ripidi verso un
portone blu, al secondo piano. Era il suo.
La
mia mano, senza alcuna sicurezza, sfiorò il legno della porta. Che
stavo facendo?
Poi
mi decisi, suonai il campanello, feci un passo indietro. Qualche
secondo, poi i suoi passi leggeri, verso di me. La porta si spalancò.
Vedere il volto che all'improvviso apparve davanti ai miei occhi, per
nulla cambiato con gli anni, fu come uno schiaffo.
Entrai.
Seguii i suoi passi fino al piccolo soggiorno, i miei stivali
sprofondarono in un tappeto soffice, rosso come le tende da cui, con
i suoi occhi neri, mi osservava. Ero turbata. Fu improvviso. Una
maglietta strappata, bottoni sul pavimento, graffi, tanti, sulla
pelle ruvida di freddo. Dolore, intenso, umido. Il respiro troppo
veloce. Il pavimento di legno grezzo che strappa i capelli.
Pensavo
che non ero io, non potevo essere io. Mi vedevo, nell'appartamento di
fronte, a svegliarmi in un letto grande, allungare la mano e toccare
un cuscino caldo, sentire una voce che parlava di caffè e pane
tostato, in cucina. Mi vedevo seduta a quel tavolo circondato da
piastrelle blu e mestoli di legno, a correggere quei temi dal corsivo
tremolante che a volte riuscivano a commuovermi. Mi alzavo per
mescolare il minestrone, ogni tanto. Guardavo le calamite sul frigo e
i post-it con le scadenze di bollette che puntualmente restavano lì
per troppi giorni. Erano tutto, quei pochi metri quadrati zeppi di
pagine. Tutto.
E lì,
dall'altra parte della strada, ero tornata in un posto che avevo
voluto rimuovere, anni prima.
Mentre
con le dita cieche cercavo la mia maglietta pensavo che me lo sarei
dovuta aspettare, da lei. Niente era stato dimenticato, tutto era lì,
in sospeso. E io volevo solo andarmene. Scappare da qualcosa che non
era più mio. Davo le spalle alla finestra, mentre mi abbottonavo i
jeans. Non la guardavo neanche. Non potevo.
“Non
sono venuta solo per questo”. La sua voce, rotta da uno strano
tremito, fu una lama. E subito lo riconobbi, quel rumore. Un click,
nel silenzio di quella casa spoglia.
Aveva
comprato una pistola, anni fa. Si era fatta un regalo. Era la sua
piccola fissazione. C'è chi infilza farfalle con uno spillo per il
puro egoismo di poterle tenere con sé per sempre. Lei, il suo
spillo, aveva deciso di usarlo in quel momento. Sparò. Io caddi,
senza morire. Il tappeto tornò ad assumere quella tonalità scura di
quando, secoli prima, era stato comprato. Immobile, non ebbi il tempo
per capire. Il rumore, questa volta, fu più attutito. Cercai di
cancellare dalla mia mente quelle due parole, così brevi, che roche
uscirono dalle sue labbra da cui il calore già spariva.
Eppure
adesso, quando nuda sto in piedi davanti allo specchio a fissare
quella cicatrice scura, anche senza chiudere gli occhi, posso ancora
sentirle.