Non esiste un luogo uguale a un altro,
in tutto il mondo. Non esiste. Possono essercene di simili, certo,
posti capaci di suscitare ricordi analoghi, le stesse emozioni come
la stessa indifferenza. Eppure, due luoghi perfettamente, totalmente
uguali, non ci sono.
Mi chiamo C., e dopo anni di viaggi,
strade polverose, digiuni e lavori occasionali, ho scoperto che
questa teoria, elaborata dalla fervida mente di qualche illustre
studioso, questa sentenza che avevo letto in qualche vecchio manuale
di geografia trovato in uno scaffale della biblioteca di Scienze
Umanistiche all'università, ecco, questa teoria è una colossale,
enorme stronzata.
Sono seduta di fronte a un piatto di
patate fritte scadenti e sgocciolanti uno strano olio scuro,
scribacchio tutto questo su un quaderno a righe da quinta elementare
mentre cerco di mettere ordine nei miei pensieri, aiutandomi con una
birra annacquata. Non ho voglia di elaborare strane teorie su
dèja-vu, ricordi sbagliati o falle spazio-temporali. Semplicemente,
sono appena stata in un luogo sosia.
Ma andiamo con ordine.
Mi
trovo in una friterie. Per
la precisione, mi trovo probabilmente nella peggiore friterie
del Belgio. È una città piccola, questa, ma è al centro
dell'Europa, c'è una stazione tutta bianca e un vecchio cinema che
trasmette film sconosciuti, e questo mi basta. Raccontare il motivo
per cui sono finita in questo posto che congela le punte delle dita
sarebbe troppo lungo. Ho finito i soldi a metà strada, mettiamola
così. E dovevo assolutamente continuare il mio viaggio. Contro la
mia volontà mi sono fermata, ma ho respirato, finalmente. Ho
riscoperto il piacere di svegliarmi per più di qualche giorno nello
stesso letto, di alzarmi e passare una mano sul vetro appannato per
vedere quello che mi aspetta là fuori, nella mia nuova quotidianità.
Pioggia, falafel freddi e scaffali pieni di libri, fondamentalmente.
Ogni sera torno verso la mia casetta in cima alla scalinata che porta
al belvedere, e quando arrivo all'ultimo gradino prendo le chiavi
dalla borsa, poi mi giro. La nebbia avvolge i palazzi anonimi, il
ponte sul fiume è illuminato da una luce blu. Da lì non si vede, ma
c'è una statua, una piccola nuotatrice, che si tuffa nell'acqua
gelida, esili fianchi e braccia tese. Come se stesse andando incontro
ad un destino sconosciuto con fredda determinazione, pur sapendo già
che in qualche modo ciò verso cui è diretta le farà versare più
di una lacrima.
Mi volto e penso a
lei, laggiù, che mi assomiglia così tanto.
Oggi
però tornando verso casa ho percorso una strada diversa, che
costeggia la collina. Una strada su cui si affacciano tanti
vicoletti, tante impasses strette
e buie, illuminate solo dalla luce di qualche lampione arrugginito. I
loro nomi mi ricordavano i miei vecchi libri di letteratura francese,
con la loro copertina rigida e il corsivo troppo piccolo.
Erano tante, una
dopo l'altra, ma una in particolare aveva attirato la mia attenzione.
Portava il nome del mio scrittore preferito. Ma non era solo quello.
C'era qualcosa, nel colore dei mattoni, nei fili d'erba che
crescevano fra un ciottolo e l'altro, forse anche nella debole luce
del lampione che ne rischiarava l'ingresso, qualcosa che mi attirava
irrimediabilmente. Non avrei saputo dire cosa. Ma all'improvviso una
sensazione sconosciuta mi ha assalita. Non era un déjà-vu. Non
solo, almeno. Così sono entrata, ho percorso quel vicoletto buio
come in un sogno.
E, arrivata in
fondo, l'ho visto.
Era un piccolo
cortile interno, illuminato da un lampione a gas e da una fila di
candele che arrivava fino alla porta di una casa dalle pareti
bianche, sporche, umide. Una panchina di legno verde, scheggiata e
senza schienale, era appoggiata contro il muro, sotto una finestrella
sbarrata. Il silenzio era totale, incontaminato. L'aria era immobile,
e sugli alberi non c'erano foglie che potessero essere accarezzate
dal vento. Senza rendermene conto, stavo iniziando a capire dove mi
trovavo.
All'improvviso,
velocissima, un'ombra si è mossa. Abbassando lo sguardo, ho visto un
gatto nero. Non c'è stato bisogno di guardarlo a lungo per capire
che si trattava di Macchia, il gatto della vecchia Ester.
Era
famosa, nel mio paese. C'era chi diceva fosse pazza, altri pensavano
fosse una strega, una strega vera. Fatto sta che Ester prevedeva il
futuro. E io, in quel momento, mi trovavo nel suo giardino. O meglio,
in un giardino identico al suo. In tutto. C'era un piccolo
annaffiatoio di latta appoggiato accanto a un vaso di gerani rossi.
C'era il cartello scritto a mano, sulla porta, Bonjour,
così diceva.
Amava
il francese, Ester. Tutti si chiedevano dove l'avesse imparato.
C'erano anche le candele che accendeva ogni sera per favorire le sue
visioni, come diceva a chi aveva la pazienza di ascoltare i suoi
racconti.
E c'era Macchia.
Era tutto lì, come
quella sera in cui saltai la mia lezione di pianoforte per andare a
casa sua. Avevo fatto una scommessa con i miei amici, a scuola. E
l'avevo persa. Mi sarei dovuta addentrare in quel cortiletto buio,
superare la fila di lucine incerte e tremolanti, bussare alla sua
porta. E chiederle di guardare nel mio futuro. Avevo una paura matta.
Il pensiero di entrare in quella casa che nessuno aveva mai visto, di
incrociare lo sguardo strabico di Ester, di bere quello che mi
avrebbe offerto, mi faceva rabbrividire. Ma, non so come, ci andai. E
ascoltai ciò che quella donna magra dai lunghi capelli biancho
sporco aveva da dirmi.
Non credetti a una
sola parola, naturalmente. Tornai spavalda dai miei amici. “È
pazza, completamente andata”, risi.
E ora stavo lì,
davanti alla sua porta. Di nuovo. Dopo dieci anni. Stavo immobile,
aspettavo, forse, oppure pensavo alle voci che giravano su di lei, in
paese. Non era vero niente. Ester non era pazza. E il francese, da
qualche parte doveva pur averlo imparato. Sorrisi. Era tutto così
strano.
Dalla mia borsa ho
preso i resti del mio pranzo, e li ho appoggiati per terra, davanti
al muso di quel gatto che mi guardava come se volesse farmi sentire
in colpa per non avergli dedicato tutta la mia attenzione fin
dall'inizio.
Mi
sono guardata intorno, per l'ultima volta, ancora un po' incredula,
poi sono tornata verso casa. Sulla strada ho visto un'insegna rossa.
Friterie. Ed eccomi
qui, a scrivere. Non posso fare altro.
“A metà del tuo viaggio verso una
meta ben precisa, a venticinque anni, tornerai a bussare alla mia
porta. Ma io non ci sarò più. Beh, almeno dai da mangiare a
Macchia. Sarà lì tutto solo, poverino”.
Eccoti
accontentata, Ester. Avevi ragione. Sono solo a metà del mio
viaggio.
Finisco la birra e
riparto.