domenica 23 settembre 2012

L.


Chiedimi dei pomeriggi in cui la pioggia sta ancora scivolando sulle piastrelle turchesi che ricoprono le pareti di casa mia, la domenica. Potresti anche chiedermi di quella volta in cui mi sono messa a ridere da sola, appena mi sono affacciata su quella terrazza da cui vedevo palme e cielo e cupole bianche. O magari delle porte lasciate aperte la mattina, e se entri c'è qualcuno che ha deciso che oggi insegna a ballare perché non sa che fare. Probabilmente non saprei che dire, inizierei a fare una smorfia che in fondo è un sorriso trattenuto, alzerei le spalle. Ma vuoi davvero che te la descriva, questa cosa?
A volte voglio stare da sola con lei. Nient'altro. Andiamo a fare un giro, mi dicono.
Un giro.
L'unica cosa che voglio è entrarci dentro ed invischiarmi così tanto in questo posto da non volerne uscire più. Sono drogata, sono fissata, è come quando incontri qualcuno che preferiresti evitare di rivedere, ché poi lo sai come potrebbe andare a finire.
Chiudo le persiane
spengo il telefono, non rispondo
smetti di entrarmi dentro, lasciami dormire oggi.

mercoledì 29 agosto 2012

Incubo di fine estate



Devo farmi un paio di occhiali nuovi. Montatura nera, leggermente squadrata, non tanto grandi da farmi sembrare una nerd, né così piccoli da darmi un'aria da professoressa di matematica che oscilla tra una malcelata frustrazione e un non troppo sottile accenno di pornografia da videonoleggio. Un paio di occhiali che simboleggi la svolta, il cambiamento, il passaggio alla vita da persona seria, quello che tutti, da almeno qualche anno, aspettano con ansia che io faccia. Togliere qualche orecchino ed alleggerire il trucco e, sì, comprare qualche camicia, a maniche lunghe ovviamente, così quell'orribile patacca non si vede, che io te lo dicevo che poi a lavorare negli uffici mica ti vogliono. E poi una casa, una casa vera, perché è ora di smetterla con i materassi sul pavimento e le stanze senza armadio, che tanto a che mi serve che fra poco me ne vado, basta con le finte permanenze, basta con questa storia di lasciare la valigia aperta accanto al letto, con i vestiti più pesanti ancora sul fondo, basta con le liste di posti strani da vedere. Qualcuno mi ha detto che adesso dovrei iniziare a viaggiare in coppia. In coppia. Come se non fosse sufficiente portarmi dietro la metà paranoica di me stessa, quella che davanti a ogni scorcio, prima del click e dello scatto del rullino mi sussurra, sempre, puntualmente, anche quest'esperienza è agli sgoccioli, sorellina. E tu sei così indietro sulla tabella di marcia. Bene, dovrò rallentare, vedrò tutto attraverso le mie lenti spesse, berrò caffè ristretto in un tempo record di otto secondi, ché passeggiare con un bicchierone pieno di brodaglia allungata con acqua tiepida è sconveniente, è rilassato. Mi farò inghiottire dai ritmi di una grigia respirazione frenetica, mangerò da sterili scatolette di plastica, lavorerò sulla tonicità dei muscoli delle mie cosce, sulle mie unghie ci sarà solo smalto trasparente.
E la sera mi toglierò le scarpe, lascerò lì quei dieci, fasulli centimetri, calpesterò il parquet dell'ingresso, mi guarderò allo specchio, e spoglierò il mio uomo iniziando dalla cravatta.
Buonanotte, tesoro.

lunedì 2 luglio 2012

Impressioni vaghe senza rilettura


Repliche di una partita che non vorremmo rivedere, cronache in castigliano stretto e neanche troppo fine, mani screpolate dal sapone a buon mercato, voci stridule di ragazze dalla cellulite che parla, americano ovviamente, una lingua composta per il novantotto percento da risate sguaiate. Festeggiare per ciò che non si dovrebbe né si vorrebbe e ridere sotto i getti d'acqua di una fontana invasa da tifosi invasati, fiori fucsia nella piazza dove meno ci si aspettava di trovare la movida (quella che noi l'avremmo fatta dieci volte meglio), cognomi inventati, o meglio, tradotti alla lettera per cambiare temporaneamente identità. Croissant ripieni di prosciutto che è meglio del prosciutto, e di formaggio così così, e quel sapore burroso che non ti aspettavi di ritrovare qui, salutandolo in modo quasi nostalgico leccandosi le dita per strada, dopo. Conoscenze lampo, c'è chi arriva e ti parla in inglese con un accento anche troppo conosciuto, che lo sgami subito, c'è chi dorme in una camerata mista senza vestiti addosso, c'è chi ti sorride mentre attacca un poster sotto il sole delle due del pomeriggio e ti dice che sì, c'è un festival, e sì, inizia proprio stasera. Fare un check-out è molto più facile del previsto, e anche rivedere le proprie priorità, oppure realizzare quanto sia bello ciò che a priori avremmo escluso. Ci sono mercati grandi interi quartieri, ci sono torte al tonno buone come non mai e bicchieri di birra minuscoli. C'è un posto bellissimo in cui si possono fotografare tutti i colori insieme, tutti.

giovedì 7 giugno 2012

(S)radicamento.


Tornare. Il ritorno, i biglietti che hanno come destinazione un luogo in cui restare, quel senso di sicurezza di cui ci si riempie quando il suolo che si calpesterà una volta arrivati lo si conosce da sempre. Schiacciante senso di appartenenza, imprescindibile legame.
Dovrei cercarlo, imporlo alla mia anima insaziabile (instabile). Incatenarmi al suolo, all'origine, alla terra, quella terra che graffia le piante dei piedi, che si incolla alle tempie, così intensa, così piena. Così vuota, a volte.
Oggi voglio davvero riuscirci. Mi tolgo le scarpe già piene di sabbia, faccio pochi passi fino alla riva del mare gelido, l'aria umida di una primavera che ancora non c'è mi increspa i capelli, mi abbasso fino a sfiorare con la punta delle dita quei minuscoli granelli sommersi. È un luogo che gronda silenzio, questo, e ci resto per un tempo indefinito. Cerco di riempirmi di tutto quello che vedo, di saziarmi, i miei respiri sono ansiosi come quelli di chi si aggrappa alla vita, affondo le mani nella sabbia e stringo, stringo fino a graffiarmi. C'è una conchiglia bianca, minuscola, che mi ferisce il palmo, ma io continuo a stringere, perché è la mia casa, perché sono le mie radici, perché...
No. Non posso.
Deve essere per forza una, la casa?
Cerco, in mezzo al niente che mi circonda, una risposta. Ma poi penso alla mia valigia, piccola e ammaccata, che è stata ovunque. Penso alle partenze, ai biglietti di sola andata, i più belli. Sono quelli, per me, la casa. È quando appoggio un piede su un suolo completamente sconosciuto, che per un po' mi apparterrà, o che forse finirò per odiare. È quando entro in un bar e mangio cose mai viste per colazione, e mi sembra di averlo fatto sempre. Quando esco la mattina e parlo per tutto il giorno una lingua che non è quella con cui ho imparato a parlare, ma che è mia in un modo ancora più intenso. È casa, quando mi sveglio in una stanza nuova, con le pareti ancora spoglie. Quando cammino per la prima volta in una città, senza mappe, senza meta.
Io, un pezzo della mia casa, lo lascio in ogni luogo da cui parto. Il ritorno, poi, è un'altra storia.

mercoledì 16 maggio 2012

Inversione_01


Cambio improvvisamente la mia direzione, dopo anni di scrupoloso cammino in linea retta. Vivo in una città in scala di grigi, fatta di spigoli e di troppi vuoti da riempire. Insignificante esistenza divisa fra anonimi muri portanti, cielo inesistente, orizzonti monocromatici da cui non spunta mai il sole. Lo dipinsi sulla mia finestra, una volta: un cerchio arancione ormai sbiadito, intenso contrasto di sfumature per riempire i miei occhi inquinati.
Il ventitré barrato fa sempre la stessa strada, e dalla via stretta dove ho accumulato i miei giorni arriva fino alla giungla di palazzi in cui quotidianamente seppellisco il mio corpo per otto lunghe ore. Sempre lo stesso percorso, da anni. Non so perché, ma stamattina la cosa mi sconvolge. Vedo per la prima volta davanti ai miei occhi i binari arrugginiti sui quali a ritmo cadenzato scorre la mia vita, e adesso lo sento, così velato, il rumore soporifero dei miei minuti sprecati che scorrono.
Cambio improvvisamente la mia direzione, oggi. Vorrei poter uscire da questa giungla intrisa di delusione collettiva senza seguire alcun percorso, senza dover prendere l'ennesimo tram, vorrei potermi smaterializzare, poter scomporre le mie molecole intossicate e disperdere la mia disfatta nello smog di settembre.
E adesso, dopo anni di scrupoloso cammino in linea retta, volgo le mie ginocchia stanche verso una meta sconosciuta, torno a sentire il sapore delle direzioni contrarie, dell'abbandono di ogni sterile programma di vita o di semplice esistenza.
Mi ritrovo quasi all'improvviso in cima alla terrazza di un palazzo abbandonato, scrigno inviolabile, da sempre discreto nascondiglio dei miei pensieri. Non so quale combinazione di mezzi e passi in ordine sparso mi abbia portata fin qui. Si vede tutto, da quassù. Tutto quello che non avrei voluto vedere. Il mio sguardo abbraccia la mia gabbia, la mia non-casa, tutto quello che ormai fa parte del mio più recente passato. Decido, in un istante, di andarmene.
Nessuna traccia dietro di me, non lascerò nessuna impronta che potrebbe ricondurmi all'amarezza del mio anonimo passato. Scriverò una lettera di dimissioni, una di scuse e una fatta di lacrime sparse, e le spedirò quando sarò lontana da qui, in una stanza vuota, nel tepore della mia nuova vita.

Ottobre, mattina.
Ti scrivo in brutta copia, qui sul mio diario, dispiegherò i miei sentimenti ingarbugliati, strapperò la pagina, piangerò. Cercherò di razionalizzare, poi cederò, e ti dirò semplicemente che la mia nuova vita, qui in questo paese lontano, è, semplicemente, bella.

Non può funzionare. Non capirà. Eppure non posso scrivere nient'altro, non posso fingere. Ho cambiato direzione, non posso sottrarmi dal processo irreversibile di fuga dal piano inclinato dei miei giorni in serie. Ma so anche che questa mia conquista dovrò tenerla solo per me. Sono io che ho scelto di abbandonare tutto nel più vigliacco dei modi, sono io che ho rinnegato la stabilità del resto dei miei giorni, sono stata io a salire su un aereo senza portarmi dietro niente. Ora devo accettare la mancanza di ogni comprensione. Sarò l'unica a riuscire ad intravedere la felicità nel provvisorio, a sperare nel potere salvifico dell'incertezza, destinata alla perenne accusa di essere priva di qualunque radice.
Alzo il bavero della mia giacca rossa, guardo in su, esco nell'aria pungente del mio primo autunno con i raggi del sole. Non c'è stato bisogno di disegnare niente sul vetro della mia finestra, stavolta. Ho due lettere in mano: imbuco la prima senza alcuna remora, accarezzo la seconda mentre ricordi malinconici della mia infanzia mi attraversano la mente. Non ce ne sarà una terza.
Con le mani in tasca cammino spedita su queste strade sconosciute, cerco di respirarle tutte, di immaginarle, queste infinite incognite che mi hanno salvata. Sorrido. Sono troppe. Sono belle.

domenica 29 aprile 2012

Encre


Svegliami. Sfiora la punta rotonda del mio naso alle tre del mattino, quando neanche il buio può accusarti di eccessiva dolcezza. Parlami con suoni opachi, senza muovere le lenzuola. Scrivimi. Traccia le tue parole di inchiostro liquido sui fogli stropicciati di cui son fatta.

Lettere sparpagliate sulla scrivania, alcune ancora chiuse, altre strappate. Tutte, indistintamente, ingiallite dal tempo. Credeva di averle dimenticate, durante un trasloco frettoloso, nell'angolo di una cantina umida. E invece eccole lì, tutte, senza data né luogo, senza nessuna inutile firma.
Si scambiavano lettere. Era ridicolo, diceva lei. Era nostalgico, diceva lui.

Dici che siamo nostalgici. Eppure siamo qui, a vivere questa cosa insieme, questa, come dire, storia. Questa buffa unione di mente – corpo nel presente – passato. Abbiamo nostalgia di una cosa che ancora c'è.

Nostalgia. Di qualcosa che c'è. Lo scrive sulla sua piccola agenda blu. Eppure definirla, quella sensazione, era impossibile. Sfoglia le pagine a ritroso, tante frasi scritte di fretta, vaghe spiegazioni, impossibili tentativi di disperata concretizzazione. Siamo qualcosa.
Di quella volta in cui lei stava per parlare, ma poi non disse niente. Ché non amava dirle, certe cose.

Le parole sono belle così, scritte. Ma non tutte. Ce ne sono alcune che segui con lo sguardo, ne percorri le insenature con le dita. Altre le immagini e basta. Sennò è tutto così terribilmente privo vie di fuga.

Le lettere sono lì, tutte. Le legge, cerca di ricomporre le loro conversazioni lontane sulla base di quelle risposte scritte con una matita calcata fino a spezzarne la punta. Grigio sbavato da una mano sinistra che violenta strisciava sulla carta. E non ci riusciva, a stare dietro a quei pensieri irrimediabilmente ammassati, non ci riusciva mai.

Sono alla continua ricerca di prove che possano confutare l'importanza delle definizioni.

Era bella, quando scriveva. Non l'aveva mai vista scrivere. L'aveva vista inspirare forte il profumo del limone, o muovere le labbra mentre studiava i suoi appunti di giapponese, o stringere i pugni quando leggeva il giornale. Ma scrivere, non l'aveva vista mai. Eppure poteva scommetterci, che era bella.

sabato 14 aprile 2012

Ultima traccia


Respiro.
Chiusa nella mia stanza senza colori per l'ultima volta. Immobile fisso le crepe sul soffitto bianco sporco, segni di vite passate, tragico sottofondo, aspettative deluse e poi lasciate lì sull'intonaco umido, come tracce non troppo silenziose di innumerevoli, eterni fallimenti.
Ce n'è una, là in mezzo, che non riesco a smettere di fissare. Le ho dato il mio nome.
Oggi la mia fine è apparsa ai miei occhi sporchi di nero. Quello che mancava nella mia vita, quello che non c'è mai stato, l'avevo rimpiazzato così bene: calde coperte, pavimenti sporchi, bagni rotti, intenso dolore, poi lieve smarrimento, dilagante perdizione.
Non ho più niente adesso.
Un soffio di vento apre all'improvviso la finestra di legno scheggiato, chiudo gli occhi e la sento, nitida, violenta. La città.
È come se lo vedessi, quel ragazzo con i capelli chiari che nella penombra della sua minuscola stanza sfiora le corde di una chitarra come a voler accompagnare il movimento continuo del traffico. Note impalpabili ed eteree colano dalle sue mani ruvide senza disturbare, scendono sempre più giù, soffocate dalla pioggia che cade pesante sulle foglie morte del viale alberato. Lì in mezzo, sepolto fra fari accesi e un blando odore di sedili in pelle, un uomo fuma l'ultima sigaretta della giornata, suona il clacson. C'è una foto stropicciata sul cruscotto, e rose a buon mercato sul sedile del passeggero. La donna con l'impermeabile giallo cammina veloce mentre parla al telefono, i suoi tacchi troppo alti graffiano l'asfalto mentre attraversa la strada, distratta. Una frenata brusca, gomme che sfrecciano nella pioggia. Voci roche arrivano dal parco con le altalene rotte, le risate sono poche ma le sento, è come se mi chiamassero, in mezzo all'incessante stridore di tutto il resto.
Ascolto, non posso fare altro.
Ma mi sembra di vederli, tutti quegli occhi che cercano qualcosa, che frugano oltre ai loro momenti irrimediabilmente vuoti, oltre quella stasi: vogliono fuggire, vogliono smettere di ascoltare quel rumore che forza le serrature delle loro esistenze apparentemente incontaminate. Ero una di loro una volta. I miei ricordi sono vaghi ormai, pallide ombre sulla scenografia monocromatica di una mente ormai sterile. Eppure qualche volta l'immagine nitida dei miei passi su quelle stesse strade umide, il rumore attutito delle mie suole consumate, le voci che sbattono sulle pareti dei bar, si affacciano prepotenti nella confusione dei miei ultimi pensieri aggrovigliati.
Un altro colpo di vento fa sbattere la finestra. Sono di nuovo con me.
Ho avuto un amico, una volta. Cerco di ricordare il suo viso, e un ritratto sgualcito e monocromatico si dipinge nella mia mente, un po' sbavato, fatto di inchiostro liquido. Mi prendeva per mano. Eravamo gli unici a stare in casa, d'estate, a guardare le nostre vecchie videocassette. Non volevamo altro. Siamo cresciuti, sempre qui, insieme, cercavamo di evitare che la vita ci scivolasse accanto senza farsi sentire troppo. Non se ne accorse mai. Un giorno decisi di parlargliene. Mi ascoltò. Poi non lo rividi mai più. Non ho più voluto parlare con nessuno, dopo.
Adesso resto qui, chiusa nel mio silenzio, i motori sono spenti e le corde immobili. I miei passi si interrompono bruscamente, ora.
Addio, città.
Respiro.



Respiro.

martedì 13 marzo 2012

Città


Città. Città è una parola piena. È una parola che riempie ogni vuoto con il solo pensiero delle eventualità. Con la parvenza di infinite incognite che lievi si intrecciano. È lecito tremare al solo pensiero di quante cose potrebbero accadere, ma che in realtà non fanno altro che restare impigliate nella sfera del possibile, incollate come zanzare su una di quelle striscioline appiccicose, cercando un modo per liberarsi, oppure no, che è più comodo. Io le vedo, queste infinite possibilità, quando cammino sui ciottoli di una piazza su cui tante biciclette sgangherate saltellano. O quando sotto un portico sfioro il lembo di una giacca, per sbaglio, mentre vado di fretta. Ed è come se, vedendole, mi congedassi da ognuna di loro con un sorriso rassegnato, ché non le rivedrò più, io lo so. È la volontà di saper scegliere, quella che a volte non c'è, ma della quale non sempre si sente la mancanza.
Mancanza. Città è mancanza infinita nella costante presenza, città è quella luce spenta in un palazzo fatto di sole finestre illuminate. È presenza forse eccessiva o forse insufficiente.
Città. Scelta. Scelta provvisoria, scrigno di infinite decisioni, luogo di perdizione in cui gli indecisi che tutto amano e tutto temono, e che tutto vorrebbero vivere, si trovano assorti, in un'insopportabile mancanza (di nuovo) di contemplazione che vede ormai solo azione, frenetiche scelte, irrimediabili decisioni.
E io, prima di scegliere una strada, scatto una foto di quella che, a malincuore, scarto.

giovedì 23 febbraio 2012

Taci (e ascolta)


Camminavo da ore ormai. Il sole diventò una striscia di silenzio arancione, fu allora che mi accorsi di essere arrivata all'ingresso di quel piccolo bosco nel quale non avevo mai avuto il coraggio di addentrarmi. Non so perché, ma pensavo che oltrepassando la soglia di quel fitto groviglio di foglie mi sarei persa, per non tornare mai più. Forse perché un pomeriggio, davanti al camino, mio nonno, con quegli occhi azzurri e il sorriso di carta crespa mi raccontò la storia di un fantasma che abitava fra quelle fronde e che si divertiva a chiamare i visitatori di quel posto incantato, senza mai mostrarsi. D'altronde, era un fantasma. Avevo continuato a mangiare pistacchi, riflettendo su quella buffa storia. Poi non ci pensai più.
Camminavo da ore, e avevo voglia di continuare a farlo. Superai la prima fila di alberi. Il silenzio era immenso. Credo fosse la prima volta che mi capitava di sentirlo per davvero. Ma eterno, in sottofondo, il brusio dei miei pensieri mormorava incessante. Cercai di spegnerlo, mentre accarezzavo la corteccia ricoperta di muschio. Volevo stare con quella parte di me stessa che il più delle volte restava nascosta, sotto tutto il resto. Quella parte che nessuno conosce.
Camminavo da ore. In mezzo al verde scuro e alle lame di luce che sempre più invisibili mi sfioravano. Appoggiai la schiena a un tronco umido, mi sembrò di cadere addormentata. Poi la sentii, una voce sottile, che mi chiamava. Pronunciava le erre così lentamente. Sapeva il mio nome, lo sapeva da sempre, forse. Provai a darle un volto. Non ci riuscii. Immaginai due occhi azzurri però, chiarissimi, che leggeri mi sorridevano.

giovedì 16 febbraio 2012

La grande onda


(da un sogno, strano e bellissimo, che ha anche una colonna sonora)

Il piccolo televisore portatile appartenente a un'epoca ormai dimenticata era appoggiato sulla sabbia e gracchiava ininterrottamente. Ogni tanto si riusciva a distinguere una parola, poi solo fruscii. Sullo schermo, puntini bianchi e neri. Tutto era privo di colori laggiù. Non c'era più nessuno. Si godevano quella pace immobile, dopo anni di chiassosa civiltà.
Seduti sulla sabbia umida, a un metro dalla riva, guardavano lo spettacolo davanti ai loro occhi. Il Golden Gate, deserto e imponente, scompariva in mezzo a una nuvola bassa. Grigia, piena di gocce che dovevano ancora cadere. Forte, sotto il rumore del minuscolo televisore, si sentiva. Era impossibile ignorarlo. Il silenzio.
Loro erano gli ultimi. Avevano deciso di sedersi lì, quella domenica, ad ascoltare il loro programma preferito, sgranocchiando patatine rancide e guardandosi negli occhi, ogni tanto. Le loro domeniche insieme erano sempre speciali. Sempre.
Il piccolo cubo senza colori si spense.
“Che succede?”
“Succede che ci siamo. È lei”
Lei gli strinse il braccio, forte. E poi la videro. L'onda. Immensa, assoluta, sovrastava ogni cosa. Il ponte, le strade, la sabbia, il piccolo televisore, i due ragazzini. Tutto, in quel momento, fu travolto dall'onda. Per un istante quasi eterno l'acqua ricoprì tutto, investendo i loro corpi esili, spazzando via le carcasse arrugginite di vecchie macchine e riempiendo le crepe nei muri.
Poi si ritirò, quell'onda infinita. Lentamente. Fiera, silenziosa.

“...”
“Ho freddo”
Il ponte, a parte qualche piccola frattura scomposta, era ancora in piedi. Lei stava immobile e lo fissava con gli occhi spalancati.
“E' tutto normale. Stai tranquilla”

Si erano incontrati lì, anni prima. Lei aveva occhi nerissimi, i capelli viola, talmente corti da sparire sotto il cappuccio della felpa troppo grande. Lui scriveva storie raccapriccianti su un quadernino giallo. E gliele raccontava per farla addormentare, la sera. Sapevano di essere rimasti solo loro. Sapevano che sarebbero dovuti restare insieme molto a lungo.
Lui le baciò la fronte bagnata e la prese per mano. Si alzarono lentamente. Magrissimi, tremanti. Voltarono le spalle al mare, al ponte, alla loro domenica ormai finita. Il tramonto arancione, accecante, dietro di loro.
“Ti ho mai raccontato cos'è successo nella cantina di quella casa laggiù, al numero 23?”

Continua. Forse.

lunedì 13 febbraio 2012

Azione / reazione


Francesco.
Un uomo con un cappello beige calato di sbieco sui capelli tagliati corti, grigi, camminava lentamente in mezzo alla nebbia di un'alba da meno tre gradi e ghiaccio sul corrimano di ferro del sottopassaggio, alla stazione. Aveva un cappotto lungo e la camminata elegante, il passo sicuro di chi sa che le probabilità che accada qualcosa di eccessivamente sorprendente nella propria vita sono ridotte. Sembrava esserne felice. Assaporava gli ultimi capitoli, quelli in cui fai tutto ciò che non hai avuto tempo di fare in una vita intera. Camminava senza valigia verso un treno che sarebbe partito in ritardo. Avanzava lento, sembrava appartenere a una dimensione temporale differente rispetto a tutte quelle persone che non facevano altro che inseguire i loro inevitabili ritardi. E in quegli attimi di tempo distorti, la vide. I capelli chiarissimi, una treccia sottile sulla spalla, occhi che non conoscevano la finzione del trucco. Era lei. Era uguale a lei, la sua aria trasognata, le sopracciglia folte, tutto in lei lo fece tornare a quel pomeriggio, l'ultimo pomeriggio in cui la baciò per l'ultima volta, dopo aver fatto l'amore sorridendo, con gli occhi un po' lucidi. Poi la guerra. Forse era morta. Forse aveva avuto una figlia uguale a lei, che ora camminava verso il binario quattro.

Helen.
Helen era persa nei suoi pensieri, canticchiava fra sé un brano che sapeva di tazze di porcellana e lezioni di piano pomeridiane. Camminava e non faceva caso alla realtà circostante, anche se per un attimo la sua attenzione fu catturata da un uomo con tante rughe e lo sguardo intriso di nostalgia, che la guardava con una tenerezza indicibile. Pensò che guardandolo fisso negli occhi avrebbe potuto vedere qualche episodio della sua vita, sotto forma di vecchi ritratti in seppia di famiglie in posa, fotografie dai bordi consumati, cartoline in cui un corsivo stentato comunica con un'eccessiva formalità che tutto va bene.
Poi tornò a pensare al suo treno che stava per partire, a quel ragazzo che l'aspettava dall'altra parte, quell'italiano di cui si era invaghita in modo insano, e che fra un mese non avrebbe rivisto mai più. Non voleva. C'era Marc, che la aspettava. C'era una casa appena ristrutturata, divani ricoperti di cellophane e intenso odore di vernice, pareti spoglie e librerie che avrebbero accolto letture irrimediabilmente contrastanti. Salì sul treno, si sedette di fronte a un ragazzo con un'infinità di riccioli rossi e una camicia troppo larga che agitava un foglietto quadrato con aria annoiata. Guardò meglio. Era una polaroid, il viso di una bambina sorrideva sdentato sul cartoncino colorato. Fossette sulle guance e un cappellino blu. Adesso era seduta poche file più avanti, a mangiare caramelle e incollare figurine su un album colorato.

Alessandro.
Alessandro, il fotografo dai capelli rossi, non riusciva a lasciarsi sfuggire i visi delle persone che inconsciamente accompagnavano i suoi viaggi. Era affascinato dal pensiero di poter conservare per sempre una traccia di qualcuno che non avrebbe rivisto mai più, come a voler ricordare sempre a sé stesso quanto fosse tutto estremamente effimero, nella sua esistenza fatta solo di tante partenze e ben pochi arrivi. La ragazza che si era appena seduta davanti a lui era di una bellezza disarmante, semplice, irreale. Una bellezza antica, con quei capelli legati in una treccia delicata di fili dorati. Se la immaginò subito, immortalata per sempre in un ritratto dipinto su una tela che avrebbe ornato un soggiorno fatto di divani in pelle profumata e tappezzeria a fiori rosa pallido. Era uno di quei visi che ricordano lo strato di polvere che ricopre tutto quello di cui prima o poi ci si dimentica. Lei si voltò a guardarlo, lui scattò. Prese quel piccolo pezzo di carta, si meravigliò di quanto l'immagine che lentamente prendeva forma fosse simile a come l'aveva immaginata. Si sporse verso di lei per mostrargliela, ma un soffio di vento la portò via. Il treno non si mosse, ma lui non andò a recuperarla. Si limitò a guardare fuori dal finestrino. Quello che vide fu un uomo.

Francesco (pt. 2)
Un uomo che fissava un pezzo di carta, rapito. Le sue mani ruvide toccavano la superficie di quella fotografia quadrata, che era atterrata ai suoi piedi da chissà dove. Lacrime calde gli bagnavano le guance. Gli mancava, gli mancava da impazzire. Non si ricordava più perché fosse uscito di casa quella mattina gelida, si era dimenticato del biglietto che aveva lasciato sul comò e delle motivazioni che l'avevano spinto fino alla stazione. Dimenticò tutto. Mise quella foto nella tasca interna del cappotto, lo richiuse, sentì la carta premere sul lato sinistro del petto. Si aggiustò il cappello, e con le mani in tasca si allontanò.

martedì 7 febbraio 2012

Ciò che di rosso ancora possiedo


Abito in una via stretta, una piccola striscia fatta di ciottoli e fili d'erba secca, una di quelle vie così romantiche di giorno, così vive, con le donne che stendono le tovaglie bianche ad asciugare al sole morbido di settembre e gli studenti del primo anno che tengono fra le mani libri nuovi e sacchetti della spesa pieni di tonno in scatola. È uno di quei posti in cui dalle finestre del piano terra si sentono le voci della bottiglieria e si immaginano contatti elettrici di labbra che davanti ai portoni si sfiorano. Abito in questa via stretta e la mattina, quando il profumo di un caffè fatto da qualcun altro mi sveglia, io non posso che sorridere sul mio cuscino profumato di lavanda.
A volte guardo fuori dalla finestra della cucina mentre bevo latte caldo e briciole sciolte. Guardo dalla finestra e quello che vedo è una mano, che veloce chiude una tenda color rosso scuro. Come a voler nascondere ai miei occhi una realtà che fino a quel momento era rimasta incautamente malcelata. E nella mia mente si formano strani pensieri sul perché di questo gesto tanto improvviso quanto apparentemente calcolato. Non sono curiosa. Non voglio sapere di chi siano quelle dita affusolate che afferrano nervosamente la tenda e la tirano davanti al mio sguardo, escludendolo da quella piccola realtà che diventa per me, improvvisamente e mio malgrado, fonte di infinite domande.

Quella forza, quel modo di stringere le dita intorno alla stoffa, quel modo di non rispettarla, di infrangere la delicatezza di un momento sospeso nel nulla.

Quella visione, che ormai si ripeteva da qualche giorno, era diventata automaticamente l'inizio delle mie giornate, come una di quelle immagini che scorrono sullo schermo mute ed insignificanti mentre si è occupati a lavare i piatti. Vivo costantemente alla ricerca di piccole conferme, e quell'impercettibile abitudine mi aiutava a trovare la sicurezza che mi avrebbe permesso di affrontare l'ennesima giornata fatta di inutili documenti destinati al riciclaggio.
Poi un giorno, mentre appoggiata a una cornetta muta aspettavo di sentire una voce sconosciuta, mi resi conto che io, a quella mano dalle ossa sporgenti, a quelle dita vagamente macchiate di nicotina, non smettevo di pensarci nemmeno un secondo. Erano diventate una presenza imprescindibile della mia esistenza fragile e insapore. C'era qualcosa poi, una forza che lenta percorreva quella pelle ruvida, che mi riportava alla mente sensazioni passate. Ma non riuscivo ad associarle a nessun vero ricordo. Inconsciamente ignoravo quell'inquietudine che leggera si insinuava nella mia testa e percorreva la mia schiena.
Fu allora che decisi di andarci di persona, in quell'appartamento, per capire il perché di questa mia nuova, assurda fissazione.
Trascorsi il pomeriggio a pensare al momento in cui l'avrei vista con i miei occhi, quell'impalpabile presenza che ogni mattina accompagnava il mio risveglio. Poi, alle sette, mi incamminai nel buio, entrando in quel vicolo che la sera sapeva di risate e colori. Quella volta, però, la bottiglieria era stranamente chiusa, e nessun odore di festa proveniva dall'appartamento sotto il mio. Era sabato, e nella piccola strada in salita regnava un incontaminato silenzio. Passai davanti alla mia porta, attraversai la strada e guardando in su vidi una luce debole provenire da una fessura fra quelle tende rosse che conoscevo così bene. Non ci fu bisogno di suonare. Spinsi il pesante portone che, socchiuso, lasciava spazio ai passanti che colti di sorpresa da una pioggia improvvisa si sarebbero forse rifugiati fra le pareti rovinate dell'ingresso. Il corrimano era di un gelido ferro scuro e si arrampicava accompagnato da gradini ripidi verso un portone blu, al secondo piano. Era il suo.
La mia mano, senza alcuna sicurezza, sfiorò il legno della porta. Che stavo facendo?
Poi mi decisi, suonai il campanello, feci un passo indietro. Qualche secondo, poi i suoi passi leggeri, verso di me. La porta si spalancò. Vedere il volto che all'improvviso apparve davanti ai miei occhi, per nulla cambiato con gli anni, fu come uno schiaffo.
Entrai. Seguii i suoi passi fino al piccolo soggiorno, i miei stivali sprofondarono in un tappeto soffice, rosso come le tende da cui, con i suoi occhi neri, mi osservava. Ero turbata. Fu improvviso. Una maglietta strappata, bottoni sul pavimento, graffi, tanti, sulla pelle ruvida di freddo. Dolore, intenso, umido. Il respiro troppo veloce. Il pavimento di legno grezzo che strappa i capelli.
Pensavo che non ero io, non potevo essere io. Mi vedevo, nell'appartamento di fronte, a svegliarmi in un letto grande, allungare la mano e toccare un cuscino caldo, sentire una voce che parlava di caffè e pane tostato, in cucina. Mi vedevo seduta a quel tavolo circondato da piastrelle blu e mestoli di legno, a correggere quei temi dal corsivo tremolante che a volte riuscivano a commuovermi. Mi alzavo per mescolare il minestrone, ogni tanto. Guardavo le calamite sul frigo e i post-it con le scadenze di bollette che puntualmente restavano lì per troppi giorni. Erano tutto, quei pochi metri quadrati zeppi di pagine. Tutto.
E lì, dall'altra parte della strada, ero tornata in un posto che avevo voluto rimuovere, anni prima.
Mentre con le dita cieche cercavo la mia maglietta pensavo che me lo sarei dovuta aspettare, da lei. Niente era stato dimenticato, tutto era lì, in sospeso. E io volevo solo andarmene. Scappare da qualcosa che non era più mio. Davo le spalle alla finestra, mentre mi abbottonavo i jeans. Non la guardavo neanche. Non potevo.
“Non sono venuta solo per questo”. La sua voce, rotta da uno strano tremito, fu una lama. E subito lo riconobbi, quel rumore. Un click, nel silenzio di quella casa spoglia.
Aveva comprato una pistola, anni fa. Si era fatta un regalo. Era la sua piccola fissazione. C'è chi infilza farfalle con uno spillo per il puro egoismo di poterle tenere con sé per sempre. Lei, il suo spillo, aveva deciso di usarlo in quel momento. Sparò. Io caddi, senza morire. Il tappeto tornò ad assumere quella tonalità scura di quando, secoli prima, era stato comprato. Immobile, non ebbi il tempo per capire. Il rumore, questa volta, fu più attutito. Cercai di cancellare dalla mia mente quelle due parole, così brevi, che roche uscirono dalle sue labbra da cui il calore già spariva.
Eppure adesso, quando nuda sto in piedi davanti allo specchio a fissare quella cicatrice scura, anche senza chiudere gli occhi, posso ancora sentirle.

giovedì 2 febbraio 2012

Cancellato


Quel giorno (era settembre, riesco ancora a ricordare il vento fresco che ti sorprende e riscalda dentro, portatore di futuri inverni e di tazze piene di tè bollente), quel giorno mi trovavo a guardare il mare con un biglietto in mano, un biglietto che avevo ritrovato nella tasca di una giacca in pelle color marronconsumato che era rimasta chiusa nell'armadio per un po'. Nelle mie orecchie il suono di un pianoforte che mi rapiva struggente, quasi a volermi incitare a prendere la decisione sbagliata. Mi ero dimenticata di quel pomeriggio di primavera in cui, davanti al computer, avevo esitato fino all'ultimo. E poi avevo ceduto. Avevo comprato quel biglietto, l'avevo stampato mentre sorridevo pensando al mare che avrei attraversato per andare lassù, in quella città dove c'eri tu che non sapevi niente di quel pezzo di carta e di quei sorrisi ingenui in allegato.
Guardavo le onde che leggere si increspavano, bianche su fondo scuro, sembrava di essere davanti a uno di quei quadri che un pomeriggio ho guardato per ore, illuminata dal riflesso polveroso delle vetrate di quel museo dal nome così soffice. Poi, incantata, quelle stesse onde ho provato a dipingerle sul muro della mia camera. Ma forse non te l'ho mai detto.
Assordata dal rumore incessante di un vortice di sale e acqua fissavo quel piccolo rettangolo stropicciato, che adesso non valeva niente. Oppure valeva troppo. Per me, almeno. Per me che ho avuto le guance rigate dal trucco blu e gli occhi come pozze di fango mentre fissavo il nome di quella destinazione che non avrebbe conosciuto arrivo. Perché io non avrei mai sentito sulla schiena la piccola scossa dell'atterraggio su quella pista bagnata da gocce fredde.
Ho portato un libro, qui davanti alle onde, su questi scogli che, così freddi, graffiano i miei piedi scalzi. Ho portato un libro e ho riletto quella pagina consumata e un po' scolorita. Mi sono chiesta cosa ci spinge, a volte, a dare così tanto peso alle combinazioni di luoghi, suoni e parole che innumerevoli volte segnano momenti che in realtà non sono poi così importanti. Eppure sapevo che quei dieci secondi, quelli in cui strappai la pagina macchiata di lacrime azzurro mare e la lasciai andare, guardandola annegare fra le onde mentre ascoltavo quei suoni che a ripetizione si insinuavano nella mia mente, io sapevo che quei dieci secondi
quel momento gelido
non si sarebbe
mai

lunedì 23 gennaio 2012

Puoi dirlo solo in francese


Non esiste un luogo uguale a un altro, in tutto il mondo. Non esiste. Possono essercene di simili, certo, posti capaci di suscitare ricordi analoghi, le stesse emozioni come la stessa indifferenza. Eppure, due luoghi perfettamente, totalmente uguali, non ci sono.
Mi chiamo C., e dopo anni di viaggi, strade polverose, digiuni e lavori occasionali, ho scoperto che questa teoria, elaborata dalla fervida mente di qualche illustre studioso, questa sentenza che avevo letto in qualche vecchio manuale di geografia trovato in uno scaffale della biblioteca di Scienze Umanistiche all'università, ecco, questa teoria è una colossale, enorme stronzata.
Sono seduta di fronte a un piatto di patate fritte scadenti e sgocciolanti uno strano olio scuro, scribacchio tutto questo su un quaderno a righe da quinta elementare mentre cerco di mettere ordine nei miei pensieri, aiutandomi con una birra annacquata. Non ho voglia di elaborare strane teorie su dèja-vu, ricordi sbagliati o falle spazio-temporali. Semplicemente, sono appena stata in un luogo sosia. Ma andiamo con ordine.
Mi trovo in una friterie. Per la precisione, mi trovo probabilmente nella peggiore friterie del Belgio. È una città piccola, questa, ma è al centro dell'Europa, c'è una stazione tutta bianca e un vecchio cinema che trasmette film sconosciuti, e questo mi basta. Raccontare il motivo per cui sono finita in questo posto che congela le punte delle dita sarebbe troppo lungo. Ho finito i soldi a metà strada, mettiamola così. E dovevo assolutamente continuare il mio viaggio. Contro la mia volontà mi sono fermata, ma ho respirato, finalmente. Ho riscoperto il piacere di svegliarmi per più di qualche giorno nello stesso letto, di alzarmi e passare una mano sul vetro appannato per vedere quello che mi aspetta là fuori, nella mia nuova quotidianità. Pioggia, falafel freddi e scaffali pieni di libri, fondamentalmente. Ogni sera torno verso la mia casetta in cima alla scalinata che porta al belvedere, e quando arrivo all'ultimo gradino prendo le chiavi dalla borsa, poi mi giro. La nebbia avvolge i palazzi anonimi, il ponte sul fiume è illuminato da una luce blu. Da lì non si vede, ma c'è una statua, una piccola nuotatrice, che si tuffa nell'acqua gelida, esili fianchi e braccia tese. Come se stesse andando incontro ad un destino sconosciuto con fredda determinazione, pur sapendo già che in qualche modo ciò verso cui è diretta le farà versare più di una lacrima.
Mi volto e penso a lei, laggiù, che mi assomiglia così tanto.
Oggi però tornando verso casa ho percorso una strada diversa, che costeggia la collina. Una strada su cui si affacciano tanti vicoletti, tante impasses strette e buie, illuminate solo dalla luce di qualche lampione arrugginito. I loro nomi mi ricordavano i miei vecchi libri di letteratura francese, con la loro copertina rigida e il corsivo troppo piccolo.
Erano tante, una dopo l'altra, ma una in particolare aveva attirato la mia attenzione. Portava il nome del mio scrittore preferito. Ma non era solo quello. C'era qualcosa, nel colore dei mattoni, nei fili d'erba che crescevano fra un ciottolo e l'altro, forse anche nella debole luce del lampione che ne rischiarava l'ingresso, qualcosa che mi attirava irrimediabilmente. Non avrei saputo dire cosa. Ma all'improvviso una sensazione sconosciuta mi ha assalita. Non era un déjà-vu. Non solo, almeno. Così sono entrata, ho percorso quel vicoletto buio come in un sogno.
E, arrivata in fondo, l'ho visto.
Era un piccolo cortile interno, illuminato da un lampione a gas e da una fila di candele che arrivava fino alla porta di una casa dalle pareti bianche, sporche, umide. Una panchina di legno verde, scheggiata e senza schienale, era appoggiata contro il muro, sotto una finestrella sbarrata. Il silenzio era totale, incontaminato. L'aria era immobile, e sugli alberi non c'erano foglie che potessero essere accarezzate dal vento. Senza rendermene conto, stavo iniziando a capire dove mi trovavo.
All'improvviso, velocissima, un'ombra si è mossa. Abbassando lo sguardo, ho visto un gatto nero. Non c'è stato bisogno di guardarlo a lungo per capire che si trattava di Macchia, il gatto della vecchia Ester.
Era famosa, nel mio paese. C'era chi diceva fosse pazza, altri pensavano fosse una strega, una strega vera. Fatto sta che Ester prevedeva il futuro. E io, in quel momento, mi trovavo nel suo giardino. O meglio, in un giardino identico al suo. In tutto. C'era un piccolo annaffiatoio di latta appoggiato accanto a un vaso di gerani rossi. C'era il cartello scritto a mano, sulla porta, Bonjour, così diceva.
Amava il francese, Ester. Tutti si chiedevano dove l'avesse imparato. C'erano anche le candele che accendeva ogni sera per favorire le sue visioni, come diceva a chi aveva la pazienza di ascoltare i suoi racconti.
E c'era Macchia.
Era tutto lì, come quella sera in cui saltai la mia lezione di pianoforte per andare a casa sua. Avevo fatto una scommessa con i miei amici, a scuola. E l'avevo persa. Mi sarei dovuta addentrare in quel cortiletto buio, superare la fila di lucine incerte e tremolanti, bussare alla sua porta. E chiederle di guardare nel mio futuro. Avevo una paura matta. Il pensiero di entrare in quella casa che nessuno aveva mai visto, di incrociare lo sguardo strabico di Ester, di bere quello che mi avrebbe offerto, mi faceva rabbrividire. Ma, non so come, ci andai. E ascoltai ciò che quella donna magra dai lunghi capelli biancho sporco aveva da dirmi.
Non credetti a una sola parola, naturalmente. Tornai spavalda dai miei amici. “È pazza, completamente andata”, risi.
E ora stavo lì, davanti alla sua porta. Di nuovo. Dopo dieci anni. Stavo immobile, aspettavo, forse, oppure pensavo alle voci che giravano su di lei, in paese. Non era vero niente. Ester non era pazza. E il francese, da qualche parte doveva pur averlo imparato. Sorrisi. Era tutto così strano.
Dalla mia borsa ho preso i resti del mio pranzo, e li ho appoggiati per terra, davanti al muso di quel gatto che mi guardava come se volesse farmi sentire in colpa per non avergli dedicato tutta la mia attenzione fin dall'inizio.
Mi sono guardata intorno, per l'ultima volta, ancora un po' incredula, poi sono tornata verso casa. Sulla strada ho visto un'insegna rossa. Friterie. Ed eccomi qui, a scrivere. Non posso fare altro.

A metà del tuo viaggio verso una meta ben precisa, a venticinque anni, tornerai a bussare alla mia porta. Ma io non ci sarò più. Beh, almeno dai da mangiare a Macchia. Sarà lì tutto solo, poverino”.

Eccoti accontentata, Ester. Avevi ragione. Sono solo a metà del mio viaggio.
Finisco la birra e riparto.

mercoledì 11 gennaio 2012

Camera oscura


“A cosa pensi?” mi chiese Daria mentre fissavo con gli occhi lucidi quel piccolo oggetto cilindrico, freddo, mentre leggevo e rileggevo la scritta in stampatello, colour film, e pensavo a quante cose avevo dimenticato.
“A niente. A tutto”.
Pensavo che avrei dovuto mollare tutto, lo straccio per spolverare e i libri per metà sulla libreria componibile, quelli letti a destra, quelli non letti a sinistra, quelli brutti dietro, in doppia fila. La mia nuova coinquilina si era sempre rifiutata di venderli o regalarli. I libri si tengono, mi diceva con il suo tono di chi ha una motivazione per tutto. Non avevo voglia di raccontarle la storia di quel rullino. Non tanto perché ci conoscevamo da pochi giorni, ma perché non avrei saputo da dove iniziare. Era troppo strana, vecchia e polverosa.
Allora ho preso la borsa e sono uscita, senza neanche cambiare la vecchia maglietta dei tempi della scuola che indossavo per le occasioni speciali come quella, per i cambi di stagione, o per dipingere persiane. Ho guidato in fretta fino alla casa del mio migliore amico, ho interrotto bruscamente la scrittura della sua tesi su strani numeri con le virgole citofonando insistentemente.
“Che ci fai qui? E come diavolo ti sei vestita?”
“Mi fai usare la tua camera oscura?”
“Adesso? Ma sto scrivendo, e non ti lascio sola lì dentro, che mi incasini tutto!”
“Dai, metto tutto in ordine, promesso. Su, fammi entrare, è importante”.
Pochi minuti dopo ero davanti a quelle vaschette bianche, rettangolari, avevo allineato le pinze davanti a me con una precisione chirurgica che trovavo solo in quei momenti, quando sapevo che stavo facendo nascere qualcosa. O, in questo caso, resuscitare.
Le mie mani si muovevano, illuminate da quella debole luce rossa, con mosse leggere immergevo quei rettangoli di carta nelle vaschette, vedevo il mio passato che ricompariva sotto i miei occhi, così pieno di oggetti strani e dimenticati.
Il filo per stendere era legato malamente a due chiodi arrugginiti che spuntavano dalla parete. Tante mollette colorate tenevano stretti quegli attimi un po' fuori fuoco. Non avevo mai capito chi fosse. L'avevo completamente dimenticato, in realtà.

All'improvviso mi rivedo, sul muretto davanti alla spiaggia. Ero uscita da sola, con quella vecchia macchina fotografica, in macchina con me c'era un pacco di caramelle, di quelle a forma di fragola, che sanno di un frutto che probabilmente neanche esiste. Guardavo verso il basso, c'era una lucertola che si arrampicava timida in mezzo alle crepe tra un mattone e l'altro, la fotografai. Poi un'ombra catturò la mia attenzione. Una sagoma, sfocata, in mezzo al vento. Esile, lontano, sfuggente, un ragazzo camminava lento sulla sabbia scolorita dal tramonto grigiastro, senza meta, senza volto. Trascinava i piedi, la figura semitrasparente. Doveva essere malinconico, o pensieroso, o entrambe. Sembrava un pirata. Aveva i capelli lunghissimi, scuri, e una bottiglia di vetro opaco in una mano, piena di un liquido scuro, forse rum molto scadente. Barcollava. Senza pensare, sollevai la macchina fotografica, il pirata era al centro dell'obiettivo, scattai. E sentii il rullino che si riavvolgeva. Abbassai lo sguardo verso la macchina fotografica, ma solo per pochi secondi. Quando tornai a guardare verso la spiaggia, il pirata era sparito. Pensai di aver avuto una visione, rimasi immobile per un attimo, poi mi alzai e tornai in macchina, guardando per un attimo quell'acqua un po' increspata, immaginando tesori sprofondati negli abissi, e pirati che vagavano alla loro ricerca come anime in pena.

Percorsi con gli occhi tutte le fotografie appese come panni stesi ad asciugare, leggermente scolorite, piene di luce, forse troppa. La mia vecchia camera piena di libri e disegni, qualche cartello stradale, poi una stazione, un treno regionale ricoperto di scritte, una bambina con una valigia. Poi una spiaggia, una lucertola su un muretto. E, alla fine, l'ultimo scatto. Lui. Non era stata una visione. Non avevo immaginato niente. C'era, il pirata, era triste, guardava verso un punto imprecisato, gli mancava qualcosa, si vedeva. E non era l'oro, non era una nave, era qualcos'altro, che mancava nei suoi occhi. E adesso, per un momento, dopo mesi, mi chiesi che fine avesse fatto, se avesse trovato quello che cercava con così tanta rassegnazione.

Quando uscii dalla camera oscura, la luce del piccolo soggiorno mi accecò.

giovedì 5 gennaio 2012

Brani casuali


Quando sono felice, bevo un caffè con tanto latte, in una tazza grande a pois rossi con il bordo sbeccato. Lo bevo stando in piedi davanti alla finestra mentre guardo le gocce sul vetro appannato, e penso al mercato del lunedì. Quando sono felice, ascolto solo musica senza parole, per far perdere meglio i miei pensieri in mezzo al vento gelido di dicembre.
Metto il cappotto ed esco, incrocio lo sguardo del ragazzo con la bicicletta celeste, che passa qui davanti tutte le mattine. Seguo il suo blog in modo adolescenziale, senza che lui lo sappia. Mi faccio leggere senza un briciolo di vergogna, quando scrivo quei racconti ispirati alla mia vita con Camille, che adesso appartiene a giorni passati.
Apro l'ombrello che si rompe subito, un'ala spezzata verde acido, che nel cielo grigio della città del nord nella quale mi trovo a vivere è un lampo di positività che viene visto quasi con sospetto.
Oggi, anziché andare al lavoro, anziché percorrere le dieci fermate del tram numero 91, anziché leggere il giornale dell'uomo col cappello seduto davanti a me, oggi ho messo le cuffie e ho schiacciato play, e ho deciso di andare dove la canzone capitata per caso nelle mie orecchie mi avrebbe portata.
Il vialetto che porta al punto più alto del parco, quello con gli alberi che piangono e le panchine senza dediche d'amore, quel vialetto fatto di terra umida e pietre stava davanti a me, immerso in una pioggia sottilissima. A destra c'è un laghetto finto, con tante ninfee sporche e foglie riflesse sull'acqua verdastra. Io cammino, sorrido, ascolto. Il vialetto fangoso è morbido sotto i miei stivali da pioggia, lascio grandi impronte che una ragazzina immortalerà fra qualche ora con la sua nuova reflex. Quando arrivo alla fine, mi volto. C'è tutto davanti a me. Palazzi grigi, sostanzialmente. Che mi sembrano belli in modo quasi eccessivo.
Una vibrazione leggera mi riporta alla realtà, mi rendo conto che sto sorridendo da sola davanti a una serie interminabile di edifici anonimi e senza la minima traccia di colore o di panni stesi ad asciugare, e mentre rifletto sulla scarsa credibilità dei miei canoni estetici, prendo il telefono e guardo lo schermo.
Camille. Lo pronuncio a voce alta, quel nome che sa di torte e mani sporche di farina. E la testa mi si riempie di colori caldi. È il primo messaggio che mi invia, da quando se n'è andata.

“Guarda davanti a te. C'è un dettaglio, in mezzo a tutto il resto. È osservando i dettagli che riuscirai ad essere felice”.

E io guardo, davanti a me. Guardo quell'ammasso di cemento incolore, quelle vie e quelle antenne che mi hanno tenuta lì per anni. C'è un filo sottile tra un palazzo e un altro, esattamente davanti a me. E, stesa su quel filo, una maglietta bianca a pois rossi, l'unica cosa colorata, lì in mezzo a tutto il resto.

Sbatto le palpebre, guardo l'orologio, è tardissimo. Stacco la fronte dal vetro appannato, appoggio la tazza sbeccata sul tavolo, bianca e rossa, colori in mezzo ad altri colori, nella mia casa piena di qualunque cosa, ed esco, sorridente, verso la fermata del 91.