Cambio improvvisamente la
mia direzione, dopo anni di scrupoloso cammino in linea retta. Vivo
in una città in scala di grigi, fatta di spigoli e di troppi vuoti
da riempire. Insignificante esistenza divisa fra anonimi muri
portanti, cielo inesistente, orizzonti monocromatici da cui non
spunta mai il sole. Lo dipinsi sulla mia finestra, una volta: un
cerchio arancione ormai sbiadito, intenso contrasto di sfumature per
riempire i miei occhi inquinati.
Il ventitré barrato fa
sempre la stessa strada, e dalla via stretta dove ho accumulato i
miei giorni arriva fino alla giungla di palazzi in cui
quotidianamente seppellisco il mio corpo per otto lunghe ore. Sempre
lo stesso percorso, da anni. Non so perché, ma stamattina la cosa mi
sconvolge. Vedo per la prima volta davanti ai miei occhi i binari
arrugginiti sui quali a ritmo cadenzato scorre la mia vita, e adesso
lo sento, così velato, il rumore soporifero dei miei minuti sprecati
che scorrono.
Cambio improvvisamente la
mia direzione, oggi. Vorrei poter uscire da questa giungla intrisa di
delusione collettiva senza seguire alcun percorso, senza dover
prendere l'ennesimo tram, vorrei potermi smaterializzare,
poter scomporre le mie molecole intossicate e disperdere la mia
disfatta nello smog di settembre.
E
adesso, dopo anni di scrupoloso cammino in linea retta, volgo le mie
ginocchia stanche verso una meta sconosciuta, torno a sentire il
sapore delle direzioni contrarie, dell'abbandono di ogni sterile
programma di vita o di semplice esistenza.
Mi
ritrovo quasi all'improvviso in cima alla terrazza di un palazzo
abbandonato, scrigno inviolabile, da sempre discreto nascondiglio dei
miei pensieri. Non so quale combinazione di mezzi e passi in ordine
sparso mi abbia portata fin qui. Si vede tutto, da quassù. Tutto
quello che non avrei voluto vedere. Il mio sguardo abbraccia la mia
gabbia, la mia non-casa, tutto quello che ormai fa parte del mio più
recente passato. Decido, in un istante, di andarmene.
Nessuna
traccia dietro di me, non lascerò nessuna impronta che potrebbe
ricondurmi all'amarezza del mio anonimo passato. Scriverò una
lettera di dimissioni, una di scuse e una fatta di lacrime sparse, e
le spedirò quando sarò lontana da qui, in una stanza vuota, nel
tepore della mia nuova vita.
Ottobre, mattina.
Ti scrivo in brutta
copia, qui sul mio diario, dispiegherò i miei sentimenti
ingarbugliati, strapperò la pagina, piangerò. Cercherò di
razionalizzare, poi cederò, e ti dirò semplicemente che la mia
nuova vita, qui in questo paese lontano, è, semplicemente, bella.
Non
può funzionare. Non capirà. Eppure non posso scrivere nient'altro,
non posso fingere. Ho cambiato direzione, non posso sottrarmi dal
processo irreversibile di fuga dal piano inclinato dei miei giorni in
serie. Ma so anche che questa mia conquista dovrò tenerla solo per
me. Sono io che ho scelto di abbandonare tutto nel più vigliacco dei
modi, sono io che ho rinnegato la stabilità del resto dei miei
giorni, sono stata io a salire su un aereo senza portarmi dietro
niente. Ora devo accettare la mancanza di ogni comprensione. Sarò
l'unica a riuscire ad intravedere la felicità nel provvisorio, a
sperare nel potere salvifico dell'incertezza, destinata alla perenne
accusa di essere priva di qualunque radice.
Alzo
il bavero della mia giacca rossa, guardo in su, esco nell'aria
pungente del mio primo autunno con i raggi del sole. Non c'è stato
bisogno di disegnare niente sul vetro della mia finestra, stavolta.
Ho due lettere in mano: imbuco la prima senza alcuna remora,
accarezzo la seconda mentre ricordi malinconici della mia infanzia mi
attraversano la mente. Non ce ne sarà una terza.
Con
le mani in tasca cammino spedita su queste strade sconosciute, cerco
di respirarle tutte, di immaginarle, queste infinite incognite che mi
hanno salvata. Sorrido. Sono troppe. Sono belle.