lunedì 19 dicembre 2011

Meteora


La strada sterrata è buia, la sabbia è illuminata a tratti dalla luce delle stelle, così nitide, così tante, qui in mezzo al niente più totale. Guido piano ascoltando il mio cd, quello che da giorni gira all'infinito nel lettore, scandendo il mio tempo nell'abitacolo piccolo e disordinato. È agosto, una sera qualsiasi della mia breve estate in questo posto ventoso e profumato. Ancora pochi giorni, e tornerò nella mia casa fredda, che sa di croissant burrosi e caffè. Merenda sul tappeto morbido del minuscolo soggiorno, le note di Debussy che vengono dallo stereo, noi che ci raccontiamo quei giorni di lontananza, quando io respiravo il profumo del mare, e lui si abbottonava la giacca autunnale sulla strada per il lavoro. Dopo anni, il ritorno a casa mi sembra sempre qualcosa di magico, quasi un rituale. Mi immergo nel mio passato, non voglio più uscirne, dopo. Ma so che sono così innamorata di tutto questo perché è così effimero. Non c'è più niente che mi possa trattenere qui, anno dopo anno il mio corpo e la mia mente hanno iniziato ad appartenere a un luogo diverso, al quale forse non si abitueranno mai, ma dal quale sono stati catturati irreversibilmente.
Mi fermo, spengo il motore. La strada finisce improvvisamente. Intorno a me cespugli, rocce, silenzio assoluto. E stelle. Scendo, alzo la zip della felpa, c'è freddo, un freddo bello, estivo. Respiro l'aria densa intorno a me, mi siedo sul cofano, guardo in su. Quest'anno le stelle cadenti sono in ritardo, mi ha detto qualcuno oggi. Se guardi il cielo, stasera, forse puoi vederne ancora.
E io sto lì, aspetto.

Il silenzio è rotto dal rumore di una macchina che avanza lentamente sulla stradina sconnessa. Mi chiedo chi possa aver avuto la mia stessa idea, proprio oggi, proprio stasera. Mi alzo, un po' contrariata, guardo verso i fari che si avvicinano, forse con una vaga aria di sfida. La macchina si ferma a qualche metro da me, il motore si spegne. Io apro lo sportello, intenzionata ad andar via da quel luogo non più mio. Ma sento una voce che conosco.
“Aspetta”.

Resto immobile. Eppure ho solo una gran voglia di scappare. Perché all'improvviso sento il peso di anni, di notti insonni, di viaggi, di sere fredde, di distanze. Ed è troppo.
Ma resto. Ora, devo restare.

C'è un sentiero strettissimo, quasi invisibile, che porta fino a una spiaggia piccola, piena di scogli. C'è un tronco scolpito dal vento, spezzato, alla fine del sentiero, le nostre scarpe sprofondano nella sabbia, il mare è quasi immobile. Mi giro, vedo il profilo delle colline, in lontananza. La strada, le macchine, sono nascoste da qualche parte, lontano. Ci siamo noi, e basta.
È come se ci fossimo visti ieri. Come se non fossimo stati lontani per anni, nel più completo silenzio. Eppure sappiamo tutto. O meglio, abbiamo una vaga idea della somiglianza delle nostre vite, a chilometri di distanza. Quando mi parla di lei, della loro casa minuscola che si affaccia sull'oceano, della musica e delle pagine scritte la notte, io annuisco, come se sapessi già tutto. E lui fa lo stesso con me. C'è una reciprocità disarmante in questa conversazione sospesa in un lasso spazio-temporale isolato ed irripetibile. Non c'è traccia di cose taciute, in questo momento c'è tutto, è la bellezza assoluta, questa notte di agosto.

Mi sfiora la mano. “Guarda” Alzo gli occhi. C'è una luce, minuscola, che precipita.

sabato 10 dicembre 2011

I viaggiatori


Guardo fuori dal finestrino del treno che mi sta portando da un paesino tutto bianco ad un altro dello stesso colore, nelle campagne del sud. Da giorni attraverso colline aride tagliate di netto da chilometrici rettilinei, brucio il mio sguardo cercando di vedere oltre quell’orizzonte arancione, oltre la terra, oltre il blu tendente al rosa che la schiaccia. Di fronte a me un ragazzo dai capelli lunghissimi scrive in fretta su un quaderno, è terrorizzato all’idea che i pensieri gli sfuggano, si vede. E ha un mezzo sorriso. Osservo ogni dettaglio, voglio conoscerlo attraverso i suoi gesti, il viaggio sarà lungo, ho finito tutti i libri che avevo portato nella mia piccola borsa di pelle, e la parola stampata perde un po’ il suo fascino di fronte alla lettura della vita stessa.
Si ferma dopo dieci minuti, stremato, si lega i capelli con una matita, prende il tabacco dallo zaino, ma no, non si può fumare qui, sbuffa, prende la matita dal groviglio di capelli, la morde.
Nessuno ha mai scritto di me, penso.
Voce elettronica, siguiente parada… non ascolto, so che devo scendere, anzi non lo so, ma il mio è un viaggio senza meta, e quel cartello arrugginito, quelle ringhiere scrostate mi confermano che la mia fermata è proprio quella. Mi alzo, prendo la mia borsa, e nello stesso momento lo scrittore nervoso afferra lo zaino. Si alza. Mi guarda un attimo, poi scende, e io lo vedo, che è spaesato, che non sa neanche lui perché ha interrotto il suo viaggio proprio a Puerto qualcosa, probabilmente non l’aveva neanche mai sentito quel nome, e mentre scendo e leggo quelle tre parole incredibilmente musicali ed evocative su uno sfondo blu scolorito capisco che forse nessuno l’aveva mai sentito.

Uno scrittore nervoso e una viaggiatrice senza meta, uno accanto all’altra a fissare una stazione deserta, lui guarda la mappa della città senza capirla troppo, lei invece fissa il vecchio orologio, non per uno specifico bisogno di collocare quel momento della sua vita in un lasso temporale ben preciso, ma perché quel pezzo di ferro un po' arrugginito se lo porterebbe volentieri a casa, arredando gran parte dello spazio fisico disponibile in una cucina che poi esiste solo nella sua mente.
Di tutte le cose che potrebbe fare questa improbabile coppia di sconosciuti anche piuttosto male assortita, la più logica sarebbe, senza ombra di dubbio, parlare. Di dove diavolo sono capitati, del perché non c’è anima viva lì alla stazione. Del perché le lancette dell’orologio girano così velocemente. Invece stanno lì, ognuno perso nei propri pensieri, neanche si guardano. Forse hanno dimenticato che sono vivi.
Non sono buffi?

Realizzo solo adesso che io e il ragazzo del treno siamo qui in piedi da qualche minuto, senza fare né dire niente. Che posto strano, sembra deserto.
Potrei andare via, o guardare l’orario del prossimo treno, potrei tornare indietro, o ancora meglio andare verso nord, a visitare quel vecchio paesino tutto in salita di cui parlava la guida. Potrei.
Ma questo suono di chitarra sempre più forte, caldissimo, quasi tangibile, è impossibile da ignorare. Allora gli prendo la mano, allo scrittore triste e spaesato, gli prendo la mano ruvida e ballo un po’ con lui, senza pensare alla sua donna, quella che probabilmente compare in ogni sua poesia. Perché adesso siamo qui, e non c’è nessuno, e forse sarà così per sempre, forse il prossimo treno non passerà per molto tempo.
E quindi, bisogna ballare, stretti. Un po’ freddi. D’altronde, non ci siamo ancora presentati.

venerdì 25 novembre 2011

Partenza


Trecentoventiquattro, trecentoventicinque. Trecentoventisei. Mi girai trafelata, dopo aver corso per dieci minuti sui gradini che portavano al belvedere, nella luce rosa del tramonto. Un po’ di nebbia, vento fresco. La città che iniziava a illuminarsi era bellissima. Ogni volta che arrivavo lì in cima dopo una corsa, pensavo a tutte le persone che stavano laggiù, a camminare per strada o bere cioccolata in un bar, a nuotare in una piscina fredda o a baciarsi in cucina. Pensavo alle loro vite, mi chiedevo se ne fossero soddisfatti, se avessero voglia di scappare, ogni tanto.
Mi sedetti su una panchina che sembrava appoggiata lì quasi per caso, presi dallo zaino il mio libro preferito, con la sua copertina bianca consumata, e lo aprii a pagina ventisei. Sorrisi, come ogni volta che leggevo quelle poche righe, quella poesia così semplice e buffa, quell’incontro di due persone che forse non si accorgeranno mai di volersi così tanto. Pensai a una persona lontanissima, solo per un attimo. Poi, con una penna nera scrissi qualche parola sulla prima pagina, con la mia scrittura incerta, sbilenca. Richiusi il libro in fretta. Non volevo fuggire, pensai. Non senza salutare, prima.
Appoggiai il libro sulla panchina, avevo le mani fredde, e sentivo il cartoncino ruvido sotto le dita.
Poi mi alzai, il sole era tramontato, le luci della città erano un po’ sfocate, o forse era solo una mia impressione. Dovevo sbrigarmi, il mio volo sarebbe partito fra poche ore. Non mi voltai a guardare il libro che stava lì, unica traccia in quella città che non avrei rivisto mai più. Velocissima, corsi giù per i gradini in pietra. Non guardai indietro. Mai più.

sabato 19 novembre 2011

Il trasloco

Lo scotch è quasi finito, resta solo una scatola da chiudere, quella con scritto “libri” in nero, la più pesante di tutte. I frammenti della sua vita sono sigillati intorno a lei, ed è come se non riuscisse a percepire più nemmeno uno dei suoi ricordi, non un solo istante dei tre anni passati in quella città sporca e piovosa, tra i mattoni rossi e le scale strette di quella casa ai piedi della collina. Tre anni. Aveva giurato a sé stessa, una volta, che non avrebbe passato più di un anno in nessun luogo, mai nella vita. Anche nella città più bella del mondo, prima del trecentosessantacinquesimo giorno la sua valigia doveva essere pronta, sulla porta. Niente scuse. Eppure qui, in questo posto che neanche le piaceva, c’è stata così tanto, nonostante fosse una città sul fiume. Alice odia i fiumi, odia dover attraversare un ponte, dover camminare affianco all’acqua mentre va al lavoro. Le sembra sempre di sentire la voce di un amante infelice che si è gettato fra le sue fredde increspature con lacrime di rabbia chiuse in gola.
Guarda fuori dalla finestra, le stelle non si vedono, troppe luci, troppa polvere sul vetro. Riesce a vedere solo il riflesso del suo mezzo sorriso, quello che la accompagna ogni volta che si lascia qualcosa alle spalle, ogni volta che lascia un’impronta in una parte di mondo.
Una volta uno dei suoi amanti si è appropriato di versi altrui per comunicarle il suo disappunto al riguardo. Non ricorda bene neanche il suo viso, se ci pensa adesso.
Parte una canzone, alla radio, e sulle note del pianoforte, su quella voce strascicata, Alice balla. Scalza, tra gli scatoloni, in mezzo alla polvere, urla con ogni suo muscolo, i capelli disegnano l’aria, le dita afferrano appigli inesistenti, lacrime di mascara dipingono la pelle bianca. Poi crolla per terra in silenzio, dopo un tempo apparentemente infinito, dopo la sua estasi, il suo addio.
Si alza, scalza cammina verso la porta, non si asciuga le lacrime. Sulla mensola all’ingresso, una scatola minuscola. La prende, Alice, la apre, estrae un fiammifero. Lo stesso mezzo sorriso di poco prima le sfiora le labbra mentre lo accende e lo lascia cadere lì, sul tappeto, in mezzo ai suoi ricordi di cartone. Chiude la porta alle sue spalle, e cammina lenta verso le colline, schiacciando fili d’erba con i piedi nudi, illuminata da tanti riflessi arancioni.
In fondo, si può vivere anche senza ricordi, pensa, felice per la prima volta.