lunedì 23 gennaio 2012

Puoi dirlo solo in francese


Non esiste un luogo uguale a un altro, in tutto il mondo. Non esiste. Possono essercene di simili, certo, posti capaci di suscitare ricordi analoghi, le stesse emozioni come la stessa indifferenza. Eppure, due luoghi perfettamente, totalmente uguali, non ci sono.
Mi chiamo C., e dopo anni di viaggi, strade polverose, digiuni e lavori occasionali, ho scoperto che questa teoria, elaborata dalla fervida mente di qualche illustre studioso, questa sentenza che avevo letto in qualche vecchio manuale di geografia trovato in uno scaffale della biblioteca di Scienze Umanistiche all'università, ecco, questa teoria è una colossale, enorme stronzata.
Sono seduta di fronte a un piatto di patate fritte scadenti e sgocciolanti uno strano olio scuro, scribacchio tutto questo su un quaderno a righe da quinta elementare mentre cerco di mettere ordine nei miei pensieri, aiutandomi con una birra annacquata. Non ho voglia di elaborare strane teorie su dèja-vu, ricordi sbagliati o falle spazio-temporali. Semplicemente, sono appena stata in un luogo sosia. Ma andiamo con ordine.
Mi trovo in una friterie. Per la precisione, mi trovo probabilmente nella peggiore friterie del Belgio. È una città piccola, questa, ma è al centro dell'Europa, c'è una stazione tutta bianca e un vecchio cinema che trasmette film sconosciuti, e questo mi basta. Raccontare il motivo per cui sono finita in questo posto che congela le punte delle dita sarebbe troppo lungo. Ho finito i soldi a metà strada, mettiamola così. E dovevo assolutamente continuare il mio viaggio. Contro la mia volontà mi sono fermata, ma ho respirato, finalmente. Ho riscoperto il piacere di svegliarmi per più di qualche giorno nello stesso letto, di alzarmi e passare una mano sul vetro appannato per vedere quello che mi aspetta là fuori, nella mia nuova quotidianità. Pioggia, falafel freddi e scaffali pieni di libri, fondamentalmente. Ogni sera torno verso la mia casetta in cima alla scalinata che porta al belvedere, e quando arrivo all'ultimo gradino prendo le chiavi dalla borsa, poi mi giro. La nebbia avvolge i palazzi anonimi, il ponte sul fiume è illuminato da una luce blu. Da lì non si vede, ma c'è una statua, una piccola nuotatrice, che si tuffa nell'acqua gelida, esili fianchi e braccia tese. Come se stesse andando incontro ad un destino sconosciuto con fredda determinazione, pur sapendo già che in qualche modo ciò verso cui è diretta le farà versare più di una lacrima.
Mi volto e penso a lei, laggiù, che mi assomiglia così tanto.
Oggi però tornando verso casa ho percorso una strada diversa, che costeggia la collina. Una strada su cui si affacciano tanti vicoletti, tante impasses strette e buie, illuminate solo dalla luce di qualche lampione arrugginito. I loro nomi mi ricordavano i miei vecchi libri di letteratura francese, con la loro copertina rigida e il corsivo troppo piccolo.
Erano tante, una dopo l'altra, ma una in particolare aveva attirato la mia attenzione. Portava il nome del mio scrittore preferito. Ma non era solo quello. C'era qualcosa, nel colore dei mattoni, nei fili d'erba che crescevano fra un ciottolo e l'altro, forse anche nella debole luce del lampione che ne rischiarava l'ingresso, qualcosa che mi attirava irrimediabilmente. Non avrei saputo dire cosa. Ma all'improvviso una sensazione sconosciuta mi ha assalita. Non era un déjà-vu. Non solo, almeno. Così sono entrata, ho percorso quel vicoletto buio come in un sogno.
E, arrivata in fondo, l'ho visto.
Era un piccolo cortile interno, illuminato da un lampione a gas e da una fila di candele che arrivava fino alla porta di una casa dalle pareti bianche, sporche, umide. Una panchina di legno verde, scheggiata e senza schienale, era appoggiata contro il muro, sotto una finestrella sbarrata. Il silenzio era totale, incontaminato. L'aria era immobile, e sugli alberi non c'erano foglie che potessero essere accarezzate dal vento. Senza rendermene conto, stavo iniziando a capire dove mi trovavo.
All'improvviso, velocissima, un'ombra si è mossa. Abbassando lo sguardo, ho visto un gatto nero. Non c'è stato bisogno di guardarlo a lungo per capire che si trattava di Macchia, il gatto della vecchia Ester.
Era famosa, nel mio paese. C'era chi diceva fosse pazza, altri pensavano fosse una strega, una strega vera. Fatto sta che Ester prevedeva il futuro. E io, in quel momento, mi trovavo nel suo giardino. O meglio, in un giardino identico al suo. In tutto. C'era un piccolo annaffiatoio di latta appoggiato accanto a un vaso di gerani rossi. C'era il cartello scritto a mano, sulla porta, Bonjour, così diceva.
Amava il francese, Ester. Tutti si chiedevano dove l'avesse imparato. C'erano anche le candele che accendeva ogni sera per favorire le sue visioni, come diceva a chi aveva la pazienza di ascoltare i suoi racconti.
E c'era Macchia.
Era tutto lì, come quella sera in cui saltai la mia lezione di pianoforte per andare a casa sua. Avevo fatto una scommessa con i miei amici, a scuola. E l'avevo persa. Mi sarei dovuta addentrare in quel cortiletto buio, superare la fila di lucine incerte e tremolanti, bussare alla sua porta. E chiederle di guardare nel mio futuro. Avevo una paura matta. Il pensiero di entrare in quella casa che nessuno aveva mai visto, di incrociare lo sguardo strabico di Ester, di bere quello che mi avrebbe offerto, mi faceva rabbrividire. Ma, non so come, ci andai. E ascoltai ciò che quella donna magra dai lunghi capelli biancho sporco aveva da dirmi.
Non credetti a una sola parola, naturalmente. Tornai spavalda dai miei amici. “È pazza, completamente andata”, risi.
E ora stavo lì, davanti alla sua porta. Di nuovo. Dopo dieci anni. Stavo immobile, aspettavo, forse, oppure pensavo alle voci che giravano su di lei, in paese. Non era vero niente. Ester non era pazza. E il francese, da qualche parte doveva pur averlo imparato. Sorrisi. Era tutto così strano.
Dalla mia borsa ho preso i resti del mio pranzo, e li ho appoggiati per terra, davanti al muso di quel gatto che mi guardava come se volesse farmi sentire in colpa per non avergli dedicato tutta la mia attenzione fin dall'inizio.
Mi sono guardata intorno, per l'ultima volta, ancora un po' incredula, poi sono tornata verso casa. Sulla strada ho visto un'insegna rossa. Friterie. Ed eccomi qui, a scrivere. Non posso fare altro.

A metà del tuo viaggio verso una meta ben precisa, a venticinque anni, tornerai a bussare alla mia porta. Ma io non ci sarò più. Beh, almeno dai da mangiare a Macchia. Sarà lì tutto solo, poverino”.

Eccoti accontentata, Ester. Avevi ragione. Sono solo a metà del mio viaggio.
Finisco la birra e riparto.

mercoledì 11 gennaio 2012

Camera oscura


“A cosa pensi?” mi chiese Daria mentre fissavo con gli occhi lucidi quel piccolo oggetto cilindrico, freddo, mentre leggevo e rileggevo la scritta in stampatello, colour film, e pensavo a quante cose avevo dimenticato.
“A niente. A tutto”.
Pensavo che avrei dovuto mollare tutto, lo straccio per spolverare e i libri per metà sulla libreria componibile, quelli letti a destra, quelli non letti a sinistra, quelli brutti dietro, in doppia fila. La mia nuova coinquilina si era sempre rifiutata di venderli o regalarli. I libri si tengono, mi diceva con il suo tono di chi ha una motivazione per tutto. Non avevo voglia di raccontarle la storia di quel rullino. Non tanto perché ci conoscevamo da pochi giorni, ma perché non avrei saputo da dove iniziare. Era troppo strana, vecchia e polverosa.
Allora ho preso la borsa e sono uscita, senza neanche cambiare la vecchia maglietta dei tempi della scuola che indossavo per le occasioni speciali come quella, per i cambi di stagione, o per dipingere persiane. Ho guidato in fretta fino alla casa del mio migliore amico, ho interrotto bruscamente la scrittura della sua tesi su strani numeri con le virgole citofonando insistentemente.
“Che ci fai qui? E come diavolo ti sei vestita?”
“Mi fai usare la tua camera oscura?”
“Adesso? Ma sto scrivendo, e non ti lascio sola lì dentro, che mi incasini tutto!”
“Dai, metto tutto in ordine, promesso. Su, fammi entrare, è importante”.
Pochi minuti dopo ero davanti a quelle vaschette bianche, rettangolari, avevo allineato le pinze davanti a me con una precisione chirurgica che trovavo solo in quei momenti, quando sapevo che stavo facendo nascere qualcosa. O, in questo caso, resuscitare.
Le mie mani si muovevano, illuminate da quella debole luce rossa, con mosse leggere immergevo quei rettangoli di carta nelle vaschette, vedevo il mio passato che ricompariva sotto i miei occhi, così pieno di oggetti strani e dimenticati.
Il filo per stendere era legato malamente a due chiodi arrugginiti che spuntavano dalla parete. Tante mollette colorate tenevano stretti quegli attimi un po' fuori fuoco. Non avevo mai capito chi fosse. L'avevo completamente dimenticato, in realtà.

All'improvviso mi rivedo, sul muretto davanti alla spiaggia. Ero uscita da sola, con quella vecchia macchina fotografica, in macchina con me c'era un pacco di caramelle, di quelle a forma di fragola, che sanno di un frutto che probabilmente neanche esiste. Guardavo verso il basso, c'era una lucertola che si arrampicava timida in mezzo alle crepe tra un mattone e l'altro, la fotografai. Poi un'ombra catturò la mia attenzione. Una sagoma, sfocata, in mezzo al vento. Esile, lontano, sfuggente, un ragazzo camminava lento sulla sabbia scolorita dal tramonto grigiastro, senza meta, senza volto. Trascinava i piedi, la figura semitrasparente. Doveva essere malinconico, o pensieroso, o entrambe. Sembrava un pirata. Aveva i capelli lunghissimi, scuri, e una bottiglia di vetro opaco in una mano, piena di un liquido scuro, forse rum molto scadente. Barcollava. Senza pensare, sollevai la macchina fotografica, il pirata era al centro dell'obiettivo, scattai. E sentii il rullino che si riavvolgeva. Abbassai lo sguardo verso la macchina fotografica, ma solo per pochi secondi. Quando tornai a guardare verso la spiaggia, il pirata era sparito. Pensai di aver avuto una visione, rimasi immobile per un attimo, poi mi alzai e tornai in macchina, guardando per un attimo quell'acqua un po' increspata, immaginando tesori sprofondati negli abissi, e pirati che vagavano alla loro ricerca come anime in pena.

Percorsi con gli occhi tutte le fotografie appese come panni stesi ad asciugare, leggermente scolorite, piene di luce, forse troppa. La mia vecchia camera piena di libri e disegni, qualche cartello stradale, poi una stazione, un treno regionale ricoperto di scritte, una bambina con una valigia. Poi una spiaggia, una lucertola su un muretto. E, alla fine, l'ultimo scatto. Lui. Non era stata una visione. Non avevo immaginato niente. C'era, il pirata, era triste, guardava verso un punto imprecisato, gli mancava qualcosa, si vedeva. E non era l'oro, non era una nave, era qualcos'altro, che mancava nei suoi occhi. E adesso, per un momento, dopo mesi, mi chiesi che fine avesse fatto, se avesse trovato quello che cercava con così tanta rassegnazione.

Quando uscii dalla camera oscura, la luce del piccolo soggiorno mi accecò.

giovedì 5 gennaio 2012

Brani casuali


Quando sono felice, bevo un caffè con tanto latte, in una tazza grande a pois rossi con il bordo sbeccato. Lo bevo stando in piedi davanti alla finestra mentre guardo le gocce sul vetro appannato, e penso al mercato del lunedì. Quando sono felice, ascolto solo musica senza parole, per far perdere meglio i miei pensieri in mezzo al vento gelido di dicembre.
Metto il cappotto ed esco, incrocio lo sguardo del ragazzo con la bicicletta celeste, che passa qui davanti tutte le mattine. Seguo il suo blog in modo adolescenziale, senza che lui lo sappia. Mi faccio leggere senza un briciolo di vergogna, quando scrivo quei racconti ispirati alla mia vita con Camille, che adesso appartiene a giorni passati.
Apro l'ombrello che si rompe subito, un'ala spezzata verde acido, che nel cielo grigio della città del nord nella quale mi trovo a vivere è un lampo di positività che viene visto quasi con sospetto.
Oggi, anziché andare al lavoro, anziché percorrere le dieci fermate del tram numero 91, anziché leggere il giornale dell'uomo col cappello seduto davanti a me, oggi ho messo le cuffie e ho schiacciato play, e ho deciso di andare dove la canzone capitata per caso nelle mie orecchie mi avrebbe portata.
Il vialetto che porta al punto più alto del parco, quello con gli alberi che piangono e le panchine senza dediche d'amore, quel vialetto fatto di terra umida e pietre stava davanti a me, immerso in una pioggia sottilissima. A destra c'è un laghetto finto, con tante ninfee sporche e foglie riflesse sull'acqua verdastra. Io cammino, sorrido, ascolto. Il vialetto fangoso è morbido sotto i miei stivali da pioggia, lascio grandi impronte che una ragazzina immortalerà fra qualche ora con la sua nuova reflex. Quando arrivo alla fine, mi volto. C'è tutto davanti a me. Palazzi grigi, sostanzialmente. Che mi sembrano belli in modo quasi eccessivo.
Una vibrazione leggera mi riporta alla realtà, mi rendo conto che sto sorridendo da sola davanti a una serie interminabile di edifici anonimi e senza la minima traccia di colore o di panni stesi ad asciugare, e mentre rifletto sulla scarsa credibilità dei miei canoni estetici, prendo il telefono e guardo lo schermo.
Camille. Lo pronuncio a voce alta, quel nome che sa di torte e mani sporche di farina. E la testa mi si riempie di colori caldi. È il primo messaggio che mi invia, da quando se n'è andata.

“Guarda davanti a te. C'è un dettaglio, in mezzo a tutto il resto. È osservando i dettagli che riuscirai ad essere felice”.

E io guardo, davanti a me. Guardo quell'ammasso di cemento incolore, quelle vie e quelle antenne che mi hanno tenuta lì per anni. C'è un filo sottile tra un palazzo e un altro, esattamente davanti a me. E, stesa su quel filo, una maglietta bianca a pois rossi, l'unica cosa colorata, lì in mezzo a tutto il resto.

Sbatto le palpebre, guardo l'orologio, è tardissimo. Stacco la fronte dal vetro appannato, appoggio la tazza sbeccata sul tavolo, bianca e rossa, colori in mezzo ad altri colori, nella mia casa piena di qualunque cosa, ed esco, sorridente, verso la fermata del 91.