lunedì 13 febbraio 2012

Azione / reazione


Francesco.
Un uomo con un cappello beige calato di sbieco sui capelli tagliati corti, grigi, camminava lentamente in mezzo alla nebbia di un'alba da meno tre gradi e ghiaccio sul corrimano di ferro del sottopassaggio, alla stazione. Aveva un cappotto lungo e la camminata elegante, il passo sicuro di chi sa che le probabilità che accada qualcosa di eccessivamente sorprendente nella propria vita sono ridotte. Sembrava esserne felice. Assaporava gli ultimi capitoli, quelli in cui fai tutto ciò che non hai avuto tempo di fare in una vita intera. Camminava senza valigia verso un treno che sarebbe partito in ritardo. Avanzava lento, sembrava appartenere a una dimensione temporale differente rispetto a tutte quelle persone che non facevano altro che inseguire i loro inevitabili ritardi. E in quegli attimi di tempo distorti, la vide. I capelli chiarissimi, una treccia sottile sulla spalla, occhi che non conoscevano la finzione del trucco. Era lei. Era uguale a lei, la sua aria trasognata, le sopracciglia folte, tutto in lei lo fece tornare a quel pomeriggio, l'ultimo pomeriggio in cui la baciò per l'ultima volta, dopo aver fatto l'amore sorridendo, con gli occhi un po' lucidi. Poi la guerra. Forse era morta. Forse aveva avuto una figlia uguale a lei, che ora camminava verso il binario quattro.

Helen.
Helen era persa nei suoi pensieri, canticchiava fra sé un brano che sapeva di tazze di porcellana e lezioni di piano pomeridiane. Camminava e non faceva caso alla realtà circostante, anche se per un attimo la sua attenzione fu catturata da un uomo con tante rughe e lo sguardo intriso di nostalgia, che la guardava con una tenerezza indicibile. Pensò che guardandolo fisso negli occhi avrebbe potuto vedere qualche episodio della sua vita, sotto forma di vecchi ritratti in seppia di famiglie in posa, fotografie dai bordi consumati, cartoline in cui un corsivo stentato comunica con un'eccessiva formalità che tutto va bene.
Poi tornò a pensare al suo treno che stava per partire, a quel ragazzo che l'aspettava dall'altra parte, quell'italiano di cui si era invaghita in modo insano, e che fra un mese non avrebbe rivisto mai più. Non voleva. C'era Marc, che la aspettava. C'era una casa appena ristrutturata, divani ricoperti di cellophane e intenso odore di vernice, pareti spoglie e librerie che avrebbero accolto letture irrimediabilmente contrastanti. Salì sul treno, si sedette di fronte a un ragazzo con un'infinità di riccioli rossi e una camicia troppo larga che agitava un foglietto quadrato con aria annoiata. Guardò meglio. Era una polaroid, il viso di una bambina sorrideva sdentato sul cartoncino colorato. Fossette sulle guance e un cappellino blu. Adesso era seduta poche file più avanti, a mangiare caramelle e incollare figurine su un album colorato.

Alessandro.
Alessandro, il fotografo dai capelli rossi, non riusciva a lasciarsi sfuggire i visi delle persone che inconsciamente accompagnavano i suoi viaggi. Era affascinato dal pensiero di poter conservare per sempre una traccia di qualcuno che non avrebbe rivisto mai più, come a voler ricordare sempre a sé stesso quanto fosse tutto estremamente effimero, nella sua esistenza fatta solo di tante partenze e ben pochi arrivi. La ragazza che si era appena seduta davanti a lui era di una bellezza disarmante, semplice, irreale. Una bellezza antica, con quei capelli legati in una treccia delicata di fili dorati. Se la immaginò subito, immortalata per sempre in un ritratto dipinto su una tela che avrebbe ornato un soggiorno fatto di divani in pelle profumata e tappezzeria a fiori rosa pallido. Era uno di quei visi che ricordano lo strato di polvere che ricopre tutto quello di cui prima o poi ci si dimentica. Lei si voltò a guardarlo, lui scattò. Prese quel piccolo pezzo di carta, si meravigliò di quanto l'immagine che lentamente prendeva forma fosse simile a come l'aveva immaginata. Si sporse verso di lei per mostrargliela, ma un soffio di vento la portò via. Il treno non si mosse, ma lui non andò a recuperarla. Si limitò a guardare fuori dal finestrino. Quello che vide fu un uomo.

Francesco (pt. 2)
Un uomo che fissava un pezzo di carta, rapito. Le sue mani ruvide toccavano la superficie di quella fotografia quadrata, che era atterrata ai suoi piedi da chissà dove. Lacrime calde gli bagnavano le guance. Gli mancava, gli mancava da impazzire. Non si ricordava più perché fosse uscito di casa quella mattina gelida, si era dimenticato del biglietto che aveva lasciato sul comò e delle motivazioni che l'avevano spinto fino alla stazione. Dimenticò tutto. Mise quella foto nella tasca interna del cappotto, lo richiuse, sentì la carta premere sul lato sinistro del petto. Si aggiustò il cappello, e con le mani in tasca si allontanò.

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