Respiro.
Chiusa nella mia stanza senza colori per l'ultima volta. Immobile
fisso le crepe sul soffitto bianco sporco, segni di vite passate,
tragico sottofondo, aspettative deluse e poi lasciate lì
sull'intonaco umido, come tracce non troppo silenziose di
innumerevoli, eterni fallimenti.
Ce n'è una, là in mezzo, che non riesco a smettere di fissare. Le
ho dato il mio nome.
Oggi la mia fine è apparsa ai miei occhi sporchi di nero. Quello che
mancava nella mia vita, quello che non c'è mai stato, l'avevo
rimpiazzato così bene: calde coperte, pavimenti sporchi, bagni
rotti, intenso dolore, poi lieve smarrimento, dilagante perdizione.
Non ho più niente adesso.
Un soffio di vento apre all'improvviso la finestra di legno
scheggiato, chiudo gli occhi e la sento, nitida, violenta. La città.
È come se lo vedessi, quel ragazzo con i capelli chiari che nella
penombra della sua minuscola stanza sfiora le corde di una chitarra
come a voler accompagnare il movimento continuo del traffico. Note
impalpabili ed eteree colano dalle sue mani ruvide senza disturbare,
scendono sempre più giù, soffocate dalla pioggia che cade pesante
sulle foglie morte del viale alberato. Lì in mezzo, sepolto fra fari
accesi e un blando odore di sedili in pelle, un uomo fuma l'ultima
sigaretta della giornata, suona il clacson. C'è una foto
stropicciata sul cruscotto, e rose a buon mercato sul sedile del
passeggero. La donna con l'impermeabile giallo cammina veloce mentre
parla al telefono, i suoi tacchi troppo alti graffiano l'asfalto
mentre attraversa la strada, distratta. Una frenata brusca, gomme che
sfrecciano nella pioggia. Voci roche arrivano dal parco con le
altalene rotte, le risate sono poche ma le sento, è come se mi
chiamassero, in mezzo all'incessante stridore di tutto il resto.
Ascolto, non posso fare altro.
Ma mi sembra di vederli, tutti quegli occhi che cercano qualcosa, che
frugano oltre ai loro momenti irrimediabilmente vuoti, oltre quella
stasi: vogliono fuggire, vogliono smettere di ascoltare quel rumore
che forza le serrature delle loro esistenze apparentemente
incontaminate. Ero una di loro una volta. I miei ricordi sono vaghi
ormai, pallide ombre sulla scenografia monocromatica di una mente
ormai sterile. Eppure qualche volta l'immagine nitida dei miei passi
su quelle stesse strade umide, il rumore attutito delle mie suole
consumate, le voci che sbattono sulle pareti dei bar, si affacciano
prepotenti nella confusione dei miei ultimi pensieri aggrovigliati.
Un altro colpo di vento fa sbattere la finestra. Sono di nuovo con
me.
Ho avuto un amico, una volta. Cerco di ricordare il suo viso, e un
ritratto sgualcito e monocromatico si dipinge nella mia mente, un po'
sbavato, fatto di inchiostro liquido. Mi prendeva per mano. Eravamo
gli unici a stare in casa, d'estate, a guardare le nostre vecchie
videocassette. Non volevamo altro. Siamo cresciuti, sempre qui,
insieme, cercavamo di evitare che la vita ci scivolasse accanto senza
farsi sentire troppo. Non se ne accorse mai. Un giorno decisi di
parlargliene. Mi ascoltò. Poi non lo rividi mai più. Non ho più
voluto parlare con nessuno, dopo.
Adesso resto qui, chiusa nel mio silenzio, i motori sono spenti e le
corde immobili. I miei passi si interrompono bruscamente, ora.
Addio, città.Respiro.
Respiro.
un addio è sempre un nuovo inizio ....
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