mercoledì 11 gennaio 2012

Camera oscura


“A cosa pensi?” mi chiese Daria mentre fissavo con gli occhi lucidi quel piccolo oggetto cilindrico, freddo, mentre leggevo e rileggevo la scritta in stampatello, colour film, e pensavo a quante cose avevo dimenticato.
“A niente. A tutto”.
Pensavo che avrei dovuto mollare tutto, lo straccio per spolverare e i libri per metà sulla libreria componibile, quelli letti a destra, quelli non letti a sinistra, quelli brutti dietro, in doppia fila. La mia nuova coinquilina si era sempre rifiutata di venderli o regalarli. I libri si tengono, mi diceva con il suo tono di chi ha una motivazione per tutto. Non avevo voglia di raccontarle la storia di quel rullino. Non tanto perché ci conoscevamo da pochi giorni, ma perché non avrei saputo da dove iniziare. Era troppo strana, vecchia e polverosa.
Allora ho preso la borsa e sono uscita, senza neanche cambiare la vecchia maglietta dei tempi della scuola che indossavo per le occasioni speciali come quella, per i cambi di stagione, o per dipingere persiane. Ho guidato in fretta fino alla casa del mio migliore amico, ho interrotto bruscamente la scrittura della sua tesi su strani numeri con le virgole citofonando insistentemente.
“Che ci fai qui? E come diavolo ti sei vestita?”
“Mi fai usare la tua camera oscura?”
“Adesso? Ma sto scrivendo, e non ti lascio sola lì dentro, che mi incasini tutto!”
“Dai, metto tutto in ordine, promesso. Su, fammi entrare, è importante”.
Pochi minuti dopo ero davanti a quelle vaschette bianche, rettangolari, avevo allineato le pinze davanti a me con una precisione chirurgica che trovavo solo in quei momenti, quando sapevo che stavo facendo nascere qualcosa. O, in questo caso, resuscitare.
Le mie mani si muovevano, illuminate da quella debole luce rossa, con mosse leggere immergevo quei rettangoli di carta nelle vaschette, vedevo il mio passato che ricompariva sotto i miei occhi, così pieno di oggetti strani e dimenticati.
Il filo per stendere era legato malamente a due chiodi arrugginiti che spuntavano dalla parete. Tante mollette colorate tenevano stretti quegli attimi un po' fuori fuoco. Non avevo mai capito chi fosse. L'avevo completamente dimenticato, in realtà.

All'improvviso mi rivedo, sul muretto davanti alla spiaggia. Ero uscita da sola, con quella vecchia macchina fotografica, in macchina con me c'era un pacco di caramelle, di quelle a forma di fragola, che sanno di un frutto che probabilmente neanche esiste. Guardavo verso il basso, c'era una lucertola che si arrampicava timida in mezzo alle crepe tra un mattone e l'altro, la fotografai. Poi un'ombra catturò la mia attenzione. Una sagoma, sfocata, in mezzo al vento. Esile, lontano, sfuggente, un ragazzo camminava lento sulla sabbia scolorita dal tramonto grigiastro, senza meta, senza volto. Trascinava i piedi, la figura semitrasparente. Doveva essere malinconico, o pensieroso, o entrambe. Sembrava un pirata. Aveva i capelli lunghissimi, scuri, e una bottiglia di vetro opaco in una mano, piena di un liquido scuro, forse rum molto scadente. Barcollava. Senza pensare, sollevai la macchina fotografica, il pirata era al centro dell'obiettivo, scattai. E sentii il rullino che si riavvolgeva. Abbassai lo sguardo verso la macchina fotografica, ma solo per pochi secondi. Quando tornai a guardare verso la spiaggia, il pirata era sparito. Pensai di aver avuto una visione, rimasi immobile per un attimo, poi mi alzai e tornai in macchina, guardando per un attimo quell'acqua un po' increspata, immaginando tesori sprofondati negli abissi, e pirati che vagavano alla loro ricerca come anime in pena.

Percorsi con gli occhi tutte le fotografie appese come panni stesi ad asciugare, leggermente scolorite, piene di luce, forse troppa. La mia vecchia camera piena di libri e disegni, qualche cartello stradale, poi una stazione, un treno regionale ricoperto di scritte, una bambina con una valigia. Poi una spiaggia, una lucertola su un muretto. E, alla fine, l'ultimo scatto. Lui. Non era stata una visione. Non avevo immaginato niente. C'era, il pirata, era triste, guardava verso un punto imprecisato, gli mancava qualcosa, si vedeva. E non era l'oro, non era una nave, era qualcos'altro, che mancava nei suoi occhi. E adesso, per un momento, dopo mesi, mi chiesi che fine avesse fatto, se avesse trovato quello che cercava con così tanta rassegnazione.

Quando uscii dalla camera oscura, la luce del piccolo soggiorno mi accecò.

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