Quando sono felice, bevo un caffè con
tanto latte, in una tazza grande a pois rossi con il bordo sbeccato.
Lo bevo stando in piedi davanti alla finestra mentre guardo le gocce
sul vetro appannato, e penso al mercato del lunedì. Quando sono
felice, ascolto solo musica senza parole, per far perdere meglio i
miei pensieri in mezzo al vento gelido di dicembre.
Metto il cappotto ed esco, incrocio lo
sguardo del ragazzo con la bicicletta celeste, che passa qui davanti
tutte le mattine. Seguo il suo blog in modo adolescenziale, senza che
lui lo sappia. Mi faccio leggere senza un briciolo di vergogna,
quando scrivo quei racconti ispirati alla mia vita con Camille, che
adesso appartiene a giorni passati.
Apro l'ombrello che si rompe subito,
un'ala spezzata verde acido, che nel cielo grigio della città del
nord nella quale mi trovo a vivere è un lampo di positività che
viene visto quasi con sospetto.
Oggi, anziché andare al lavoro,
anziché percorrere le dieci fermate del tram numero 91, anziché
leggere il giornale dell'uomo col cappello seduto davanti a me, oggi
ho messo le cuffie e ho schiacciato play, e ho deciso di andare dove
la canzone capitata per caso nelle mie orecchie mi avrebbe portata.
Il vialetto che porta al punto più
alto del parco, quello con gli alberi che piangono e le panchine
senza dediche d'amore, quel vialetto fatto di terra umida e pietre
stava davanti a me, immerso in una pioggia sottilissima. A destra c'è
un laghetto finto, con tante ninfee sporche e foglie riflesse
sull'acqua verdastra. Io cammino, sorrido, ascolto. Il vialetto
fangoso è morbido sotto i miei stivali da pioggia, lascio grandi
impronte che una ragazzina immortalerà fra qualche ora con la sua
nuova reflex. Quando arrivo alla fine, mi volto. C'è tutto davanti a
me. Palazzi grigi, sostanzialmente. Che mi sembrano belli in modo
quasi eccessivo.
Una vibrazione leggera mi riporta alla
realtà, mi rendo conto che sto sorridendo da sola davanti a una
serie interminabile di edifici anonimi e senza la minima traccia di
colore o di panni stesi ad asciugare, e mentre rifletto sulla scarsa
credibilità dei miei canoni estetici, prendo il telefono e guardo lo
schermo.
Camille. Lo pronuncio a voce alta, quel
nome che sa di torte e mani sporche di farina. E la testa mi si
riempie di colori caldi. È il primo messaggio che mi invia, da
quando se n'è andata.
“Guarda davanti a te. C'è un
dettaglio, in mezzo a tutto il resto. È osservando i dettagli che
riuscirai ad essere felice”.
E io guardo, davanti a me. Guardo
quell'ammasso di cemento incolore, quelle vie e quelle antenne che mi
hanno tenuta lì per anni. C'è un filo sottile tra un palazzo e un
altro, esattamente davanti a me. E, stesa su quel filo, una maglietta
bianca a pois rossi, l'unica cosa colorata, lì in mezzo a tutto il
resto.
Sbatto le palpebre, guardo l'orologio,
è tardissimo. Stacco la fronte dal vetro appannato, appoggio la
tazza sbeccata sul tavolo, bianca e rossa, colori in mezzo ad altri
colori, nella mia casa piena di qualunque cosa, ed esco, sorridente,
verso la fermata del 91.
Nessun commento:
Posta un commento