giovedì 5 gennaio 2012

Brani casuali


Quando sono felice, bevo un caffè con tanto latte, in una tazza grande a pois rossi con il bordo sbeccato. Lo bevo stando in piedi davanti alla finestra mentre guardo le gocce sul vetro appannato, e penso al mercato del lunedì. Quando sono felice, ascolto solo musica senza parole, per far perdere meglio i miei pensieri in mezzo al vento gelido di dicembre.
Metto il cappotto ed esco, incrocio lo sguardo del ragazzo con la bicicletta celeste, che passa qui davanti tutte le mattine. Seguo il suo blog in modo adolescenziale, senza che lui lo sappia. Mi faccio leggere senza un briciolo di vergogna, quando scrivo quei racconti ispirati alla mia vita con Camille, che adesso appartiene a giorni passati.
Apro l'ombrello che si rompe subito, un'ala spezzata verde acido, che nel cielo grigio della città del nord nella quale mi trovo a vivere è un lampo di positività che viene visto quasi con sospetto.
Oggi, anziché andare al lavoro, anziché percorrere le dieci fermate del tram numero 91, anziché leggere il giornale dell'uomo col cappello seduto davanti a me, oggi ho messo le cuffie e ho schiacciato play, e ho deciso di andare dove la canzone capitata per caso nelle mie orecchie mi avrebbe portata.
Il vialetto che porta al punto più alto del parco, quello con gli alberi che piangono e le panchine senza dediche d'amore, quel vialetto fatto di terra umida e pietre stava davanti a me, immerso in una pioggia sottilissima. A destra c'è un laghetto finto, con tante ninfee sporche e foglie riflesse sull'acqua verdastra. Io cammino, sorrido, ascolto. Il vialetto fangoso è morbido sotto i miei stivali da pioggia, lascio grandi impronte che una ragazzina immortalerà fra qualche ora con la sua nuova reflex. Quando arrivo alla fine, mi volto. C'è tutto davanti a me. Palazzi grigi, sostanzialmente. Che mi sembrano belli in modo quasi eccessivo.
Una vibrazione leggera mi riporta alla realtà, mi rendo conto che sto sorridendo da sola davanti a una serie interminabile di edifici anonimi e senza la minima traccia di colore o di panni stesi ad asciugare, e mentre rifletto sulla scarsa credibilità dei miei canoni estetici, prendo il telefono e guardo lo schermo.
Camille. Lo pronuncio a voce alta, quel nome che sa di torte e mani sporche di farina. E la testa mi si riempie di colori caldi. È il primo messaggio che mi invia, da quando se n'è andata.

“Guarda davanti a te. C'è un dettaglio, in mezzo a tutto il resto. È osservando i dettagli che riuscirai ad essere felice”.

E io guardo, davanti a me. Guardo quell'ammasso di cemento incolore, quelle vie e quelle antenne che mi hanno tenuta lì per anni. C'è un filo sottile tra un palazzo e un altro, esattamente davanti a me. E, stesa su quel filo, una maglietta bianca a pois rossi, l'unica cosa colorata, lì in mezzo a tutto il resto.

Sbatto le palpebre, guardo l'orologio, è tardissimo. Stacco la fronte dal vetro appannato, appoggio la tazza sbeccata sul tavolo, bianca e rossa, colori in mezzo ad altri colori, nella mia casa piena di qualunque cosa, ed esco, sorridente, verso la fermata del 91.

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